di Alessandro Rico
Roberto Benigni ha fatto la scoperta del secolo: la Costituzione più bella del mondo può essere ancora più bella. Gli anni passano, le rughe aumentano, la chirurgia fa miracoli.
Il repertorio di argomenti che Benigni ha addotto per giustificare il suo “sì” al referendum costituzionale sembra proprio un distillato della coscienza domata del “renziano controvoglia”: sono trent’anni che si discute di riforma, se non cambiamo ora non cambiamo più, se non altro è un inizio, poi si può sempre migliorare. E udite udite cosa risponde il guitto fiorentino a chi evoca lo spauracchio del regime, che per anni la sinistra ha brandito contro Berlusconi: «Dopo settant’anni di democrazia, se qualcuno volesse provare a farsi dittatore nell’Italia di oggi, verrebbe fuori un tiranno da operetta». Che è successo a Benigni? Siamo dinanzi a un classico caso di doppia morale, l’arte che i compagni hanno sempre esercitato con somma perizia? O semplicemente il comico è un esemplare di homo paraculus, quella specie che certo può vantare un glorioso successo evolutivo? Di canti della Divina Commedia da declamare in televisione ce ne sono ancora parecchi: la RAI val bene un voto.
Se seguire il consiglio del Roberto nazionale sia saggio, giudichino i nostri lettori rammentando la battutina su Berlusconi che il comico pronunciò davanti all’Europarlamento, con quell’arietta compiaciuta e pungente che solo certi toscani sanno esibire: «Ho una gamba ingessata perché in Italia qualcuno ha deciso di fare un passo indietro», alludendo alle dimissioni del governo Berlusconi e all’insediamento di Monti.
Un capitolo vergognoso della storia recente, tra interferenze di Stati esteri e colpi di mano di Napolitano, che il “popolo viola” ha salutato con demenziale baldanza, gettandosi a capofitto nelle mani dei carnefici bocconiani. Benigni, allora come oggi, dimostra di incarnare una delle caratteristiche del tipo italico, ereditata da secoli di dominio straniero, cortigianeria, (dis)onesta dissimulazione: è l’arte di saltare sul carro del vincitore, l’esatto opposto dell’anarchica irriverenza del poeta satirico, che bacchetta i potenti e castigat ridendo mores. Benigni è sempre stato pronto ad allinearsi al politicamente corretto, all’élite che occupava il panorama culturale nostrano e se ora abbandona al loro destino i vari Zagrebelski e Moni Ovadia, è perché ha trovato in Renzi un porto sicuro.
Della serie: se non puoi batterli, unisciti a loro. Chi da certi personaggi si aspetti coerenza e coraggio pecca d’ingenuità: questi sono primatisti di ipocrisia, uomini capaci di accumulare fortune (in denaro pubblico) mentre predicano l’uguaglianza e la redistribuzione dei redditi, camaleontici ideologi idealisti che al momento giusto sanno trasformarsi in campioni di realismo.
Insomma, Benigni ci insegna che evaporato Berlusconi, un nuovo mondo è nato: la Costituzione più bella del mondo può essere stravolta («Io sono affezionato in particolare alla prima parte, quella dei diritti e dei doveri, che per fortuna non si vuole toccare»; ah, ecco, eravamo noi ad aver capito male); la Repubblica nata dalla resistenza è ormai il partigiano reggiano di Zucchero; e l’involuzione autoritaria, che minacciava questa terra di democrazia ogniqualvolta Berlusconi fiatasse, oggi è un pericolo inattuale. Poco male. Basti dire che per me la Costituzione più bella del mondo è quella inglese, che non esiste.
Non saprei dire se la coerenza sia la virtù degli asini. Di sicuro non è la virtù dei furbi. La tecnica dell’arrampicata sugli specchi, invece, è una virtù mondana ma non cristiana. E come dice quel tale dei comitati del referendum: «Sia il vostro parlare sì sì, no no: il di più viene da Benigni». Pubblicato il 03 giugno 2016
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