03 maggio 2012

Contro la crisi, tornare ai "principî"


di Alessandro Rico
«Necessario» è l’aggettivo più ricorrente nel lessico politico degli ultimi mesi. I sacrifici sono necessari, le tasse sono necessarie, il rigore è necessario. Così, la dimensione della «possibilità», che da Aristotele a Heidegger era considerata il dominio eminente delle scienze pratiche, qual è la politica, sembra essere stata schiacciata dal peso della necessità, che è anànke, ma anche amekanìa, impotenza, resa.

E certo che la situazione attuale impone qualcosa di «necessario». Forse non nuove accise sui carburanti, non patrimoniali occulte che attentano alla proprietà privata, ma è evidente che bisogna agire, e in fretta. Le soluzioni non sono solo di natura tecnica; ovviamente, urge una riconsiderazione della versione keynesiana di concepire il mercato, è «necessario» imprimere al Paese una svolta riformista (sul lavoro, sul fisco, sulla pubblica amministrazione e sulla classe politica), però se si vuole che certe misure conservino la loro efficacia, bisogna avviare una riflessione filosofica. Contro la crisi, tornare ai «principi». Quali? Quelli che hanno garantito al mondo occidentale lo sviluppo di ordini sociali liberi e aperti; principi su cui non siano ammesse deroghe, perché cercare delle eccezioni alla regola significa preparare il terreno ad un altro collasso.

Innanzitutto, si dovrebbe rileggere un libro di Friedrich von Hayek, Legge, legislazione e libertà, dove il Nobel austriaco denuncia chiaramente i pericoli che si celano dietro l’adozione di misure politiche che forzino i principi della libertà. Una tentazione irresistibile, perché, come rileva Hayek, «dal momento che il valore della libertà si basa sulle opportunità che essa fornisce per azioni non previste e impredicibili, raramente siamo in grado di apprezzare che cosa perdiamo in conseguenza di una particolare restrizione della libertà». Un certo modo pragmatico, o «realista» di considerare la politica, come un’attività orientata al raggiungimento di scopi particolari, di volta in volta giudicati desiderabili, ha distrutto il regime della libertà sotto il governo della legge e ha prodotto una serie di conseguenze inattese e sgradite, costringendoci, ora che i nodi sono venuti al pettine, ad adottare aggiustamenti «necessari».

La sfida che il nostro futuro ci lancia non si esaurisce, pertanto, nel superare la crisi, trasformando gli indici di recessione in segnali di crescita; un successo completo può essere ottenuto solo a patto di restringere i confini dell’arbitrio delle azioni di governo – indipendentemente dal fatto che certe misure orientate a scopi particolari derivino effettivamente da una visione «opportunistica», oppure dal disdicevole intento di garantirsi clientele elettorali attraverso franchigie, privilegi, elargizioni, in barba ai principi generali – e di adottare di nuovo una scrupolosa osservanza delle condizioni che assicurino il godimento della libertà liberale.

La difesa di tali principi, ammette Hayek, non può che essere «dommatica», giacché il rifiuto di servirsi di politiche orientate al raggiungimento di obiettivi particolari, «si fonda su argomenti non più solidi di quelli del sostenere che tali misure sono in conflitto con una regola generale». In verità, i «fallimenti dello Stato interventista» erano già stati ampiamente dimostrati dall’omonimo saggio di von Mises e dal controverso The road to serfdom, pubblicato dallo stesso Hayek sul finire della Seconda Guerra Mondiale; ma è naturale che gli ordinari compiti di governo richiedano una celerità che non consente di riflettere, ogni volta, sulle possibili conseguenze di una deviazione dai principi della libertà sotto il governo di leggi generali. Perciò, diventa «necessario» essere dogmatici, esponendosi alla facile critica di dottrinarismo, almeno per evitare che a divenire necessario, sia qualcosa di ben peggiore della libertà liberale. 
 

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