di Alessandro Rico
«Necessario»
è l’aggettivo più ricorrente nel lessico politico degli ultimi mesi. I
sacrifici sono necessari, le tasse sono necessarie, il rigore è necessario.
Così, la dimensione della «possibilità», che da Aristotele a Heidegger era
considerata il dominio eminente delle scienze pratiche, qual è la politica, sembra
essere stata schiacciata dal peso della necessità, che è anànke, ma anche amekanìa,
impotenza, resa.
E
certo che la situazione attuale impone qualcosa di «necessario». Forse non
nuove accise sui carburanti, non patrimoniali occulte che attentano alla
proprietà privata, ma è evidente che bisogna agire, e in fretta. Le soluzioni
non sono solo di natura tecnica; ovviamente, urge una riconsiderazione della
versione keynesiana di concepire il mercato, è «necessario» imprimere al Paese
una svolta riformista (sul lavoro, sul fisco, sulla pubblica amministrazione e sulla
classe politica), però se si vuole che certe misure conservino la loro
efficacia, bisogna avviare una riflessione filosofica. Contro la crisi, tornare
ai «principi». Quali? Quelli che hanno garantito al mondo occidentale lo sviluppo
di ordini sociali liberi e aperti; principi su cui non siano ammesse deroghe,
perché cercare delle eccezioni alla regola significa preparare il terreno ad un
altro collasso.
Innanzitutto,
si dovrebbe rileggere un libro di Friedrich von Hayek, Legge, legislazione e libertà, dove il Nobel austriaco denuncia
chiaramente i pericoli che si celano dietro l’adozione di misure politiche che
forzino i principi della libertà. Una tentazione irresistibile, perché, come
rileva Hayek, «dal momento che il valore della libertà si basa sulle
opportunità che essa fornisce per azioni non previste e impredicibili,
raramente siamo in grado di apprezzare che cosa perdiamo in conseguenza di una
particolare restrizione della libertà». Un certo modo pragmatico, o «realista»
di considerare la politica, come un’attività orientata al raggiungimento di
scopi particolari, di volta in volta giudicati desiderabili, ha distrutto il
regime della libertà sotto il governo della legge e ha prodotto una serie di
conseguenze inattese e sgradite, costringendoci, ora che i nodi sono venuti al
pettine, ad adottare aggiustamenti «necessari».
La
sfida che il nostro futuro ci lancia non si esaurisce, pertanto, nel superare
la crisi, trasformando gli indici di recessione in segnali di crescita; un
successo completo può essere ottenuto solo a patto di restringere i confini
dell’arbitrio delle azioni di governo – indipendentemente dal fatto che certe
misure orientate a scopi particolari derivino effettivamente da una visione «opportunistica»,
oppure dal disdicevole intento di garantirsi clientele elettorali attraverso
franchigie, privilegi, elargizioni, in barba ai principi generali – e di
adottare di nuovo una scrupolosa osservanza delle condizioni che assicurino il
godimento della libertà liberale.
La
difesa di tali principi, ammette Hayek, non può che essere «dommatica», giacché
il rifiuto di servirsi di politiche orientate al raggiungimento di obiettivi
particolari, «si fonda su argomenti non più solidi di quelli del sostenere che
tali misure sono in conflitto con una regola generale». In verità, i «fallimenti
dello Stato interventista» erano già stati ampiamente dimostrati dall’omonimo
saggio di von Mises e dal controverso The
road to serfdom, pubblicato dallo
stesso Hayek sul finire della Seconda Guerra Mondiale; ma è naturale che gli
ordinari compiti di governo richiedano una celerità che non consente di
riflettere, ogni volta, sulle possibili conseguenze di una deviazione dai
principi della libertà sotto il governo di leggi generali. Perciò, diventa
«necessario» essere dogmatici, esponendosi alla facile critica di dottrinarismo,
almeno per evitare che a divenire necessario, sia qualcosa
di ben peggiore della libertà liberale.
Pubblicato il 03 maggio 2012
0 commenti :
Posta un commento