di Alessio Calò
Nonostante i consigli degli amici ed una repulsione che va crescendo, mi ostino a leggere il Corriere della Sera (versione cartacea e on line), compresi i blog tematici, come ad esempio http://solferino28.corriere.it/, che parla di giovani, oppure http://27esimaora.corriere.it/, che riguarda la questione femminile, sui quali ci sarebbe molto da scrivere…
Nonostante i consigli degli amici ed una repulsione che va crescendo, mi ostino a leggere il Corriere della Sera (versione cartacea e on line), compresi i blog tematici, come ad esempio http://solferino28.corriere.it/, che parla di giovani, oppure http://27esimaora.corriere.it/, che riguarda la questione femminile, sui quali ci sarebbe molto da scrivere…
L’ultimo
articolo di Solferino28, ad esempio, parla di un giovane bocconiano fuggito
in Australia per sopravvivere. Non voglio qui concentrarmi sull’episodio in sé,
che suscita comunque una lunga serie di riflessioni, quanto su un’affermazione del
giovane che mi ha parecchio colpito, in quanto sottende una concezione del
lavoro alquanto distorta. Nell’articolo si dice infatti che lo studente "Prima
di andare in Bocconi ha lavorato in una banca, come cassiere. «Un contratto a
tempo indeterminato, ma mi sentivo sprecato»”. Una dichiarazione che mostra
chiaramente quell’atteggiamento verso il lavoro che nei secoli la civiltà
occidentale ha fatto proprio: un’ambivalenza tra l’esaltazione, nel momento in
cui il lavoro rappresenta uno strumento di benessere e di autorealizzazione, e l’abbattimento,
se diventa alienante e subordinato al mero consumo. Ripercorriamo brevemente questa
concezione del lavoro nei secoli.
Per i
filosofi greci e romani il lavoro è un aspetto secondario, in quanto toglie
tempo alla perfezione umana, che si raggiunge invece con la ricerca della virtù
e la contemplazione, oppure provoca fatica (labor
in latino). Nel Medioevo la regola benedettina ora et labora è un invito ad evitare il vizio
dell’ozio, ma conserva il dualismo tra vita contemplativa e quella attiva, sebbene
innalzi il lavoro al livello della preghiera, aprendo le porte all’umanesimo
delle arti e dei mestieri. La svolta avviene con la riforma protestante e con
il razionalismo cartesiano: nel primo caso il lavoro quotidiano diventa vocazione
(beruf in tedesco), dove il successo
terreno è una misura della benevolenza divina; nel secondo si ha un’esaltazione
della ragione tecnica, che offre dignità al lavoro come attività propria
dell’uomo e della sua ragione, in quanto permette di dominare la natura al
proprio volere, al servizio del progresso, concetto che verrà ripreso
dall’Illuminismo. Con lo sviluppo tecnologico e le rivoluzioni industriali, il
lavoro diventa azione meccanica, ordinata alla produzione di beni, con una
concezione materialistica. Adam Smith afferma che il lavoro sta all’origine
della ricchezza delle nazioni, mentre Karl Marx, profetizzando l’avvento del
fordismo e del taylorismo, elabora il concetto di alienazione: l’uomo diventa l’oggetto
del sistema capitalistico, perdendo la soggettività che lo caratterizza. La
seconda parte del XX secolo segna l’importanza della conoscenza di tipo
scientifico, astratto, intellettuale, dove prevalgono socialmente i lavori che
richiedono innovazione e creatività; si diffonde parallelamente una sorta di idolatria
del lavoro, di matrice anglosassone e protestante.
La
tendenza di fondo di queste concezioni è il loro carattere materialista, che tralascia
tutta una serie di elementi che caratterizzano l’uomo a livello psicologico, sociale, culturale, e che diventa quindi
antropologicamente estraniante. In effetti le più recenti teorie
sociologiche del lavoro rivedono la situazione del lavoratore, da oggetto a soggetto,
considerandolo nella sua condizione di animale razionale, e dunque libero, ma anche
sociale, cioè dipendente dall’altro, e spostano l’interesse dal mero risultato
dell’attività lavorativa alla socialità ed esperienza necessari ad ottenerlo.
Da un
punto di vista antropologico il lavoro si può
considerare omogeneo all’uomo, sia in senso strutturale, in quanto conforme alla
sua natura, che in senso intenzionale, come modalità di sviluppo libero e
volontario della sua soggettività e del suo rapporto con il mondo. Da un
punto di vista teologico invece, è molto interessante la concezione elaborata da
Josemaria Escrivà, Santo della Chiesa Cattolica e fondatore dell’Opus Dei, che considera
il lavoro come occasione di santificazione (cioè perfezionamento
umano e soprannaturale): qualunque lavoro
umanamente degno e onesto può diventare un lavoro divino, cioè un luogo in cui
si può amare e servire Dio e il prossimo. Più precisamente, San Josemaria parla
di santificazione del lavoro,
santificazione nel lavoro e santificazione degli altri con il lavoro. Non
solo: il lavoro diventa mezzo di partecipazione alla creazione e, con la
Redenzione operata da Cristo, viene sanato e diventa esso stesso mezzo per
corredimere con Cristo, all’interno del piano salvifico di Dio. Con questa
nuova prospettiva, sarà il caso rimboccarsi le maniche.
Pubblicato il 25 aprile 2012
Molto bello!!
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