08 marzo 2019

Appunti sulla storia della musica sacra/18

di Aurelio Porfiri
Papa Damaso (305-384) di cui San Gerolamo fu segretario, ebbe probabilmente un ruolo liturgico e per la musica. Infatti il Liber Pontificalis, questa raccolta medioevale di vite di Papi che gli storici maneggiano con cautela ma che è nondimeno preziosa, ci informa che fu lui ad introdurre il canto dei salmi giorno e notte, un uso che estese a preti, vescovi e monasteri. Secondo Gregorio Magno, fu Damaso che introdusse l’uso di cantare l’Alleluia durante la Messa con l’aiuto di Gerolamo, un uso che aveva mutuato dalla Chiesa in Gerusalemme.

San Gerolamo (347-420) fu certamente una delle grandi figure nel quarto secolo, non fosse altro per la sua opera di traduttore della Sacra Scrittura. Nella sua opera troviamo alcuni riferimenti alla musica nella liturgia. Dice nella sua Lettera 46: “Ma, come abbiamo detto sopra, nel villaggio di Cristo tutto è semplice e rustico: ed eccetto il canto dei salmi c'è un completo silenzio. Ovunque si rivolga l'operaio al suo aratro canta alleluia, la falciatrice faticosa si rallegra con i salmi, e il vignaiolo mentre pota la sua vite canta uno dei canti di David. Queste sono le canzoni del paese; questi, nella frase popolare, le sue amicizie amorose: questi i fischi del pastore; questi il coltivatore usa per aiutare il suo lavoro”. Questo passaggio ci dimostra qualcosa di cui eravamo già in parte consci, la diffusione del canto dei salmi che in Gerolamo sembra veramente estremamente diffuso tanto da formare il repertorio canoro della gente semplice.

Nella Lettera 52 dice: “Se nel corso del tuo dovere ecclesiastico devi visitare una vedova o una vergine, non entrare mai in casa da solo. Fa che i tuoi compagni siano persone con la cui vicinanza non ti disonorerai. Se porti un lettore con te o un accolito o un salmista, che il loro carattere, non il loro abito, sia il loro ornamento; lascia che non usino pinze per arricciarsi i capelli; piuttosto che il loro ruolo sia un indice della loro castità”. Un chiaro monito a non gloriarsi dei propri talenti come se fossero merito nostro, una critica ad un possibile “clericalismo” ante litteram, per cui lo stato ecclesiastico diviene pretesto per ottenere vantaggi personali, come quelli di indossare vestiti raffinati o di acconciarsi i capelli alla moda.

 

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