18 ottobre 2021

L’Eucaristia, un canto di gratitudine


di don Samuele Pinna

In questi giorni in molte parrocchie si vive l’antica e intensa pratica delle Santissime Quarantore. Riportiamo la riflessione di don Samuele Pinna sul Mistero dell’Eucaristia

Per tentare di comprendere un poco il Mistero grande e sublime dell’Eucaristia bisogna essere innamorati di Dio. Non c’è altra strada né altra scorciatoia possibile: solo così parole come “rendimento di grazie”, “obbedienza”, “sacrificio” acquisiscono un senso. Non importa, dunque, tanto l’esteriorità, quanto il cuore, come è descritto in un racconto di Don Camillo di Giovannino Guareschi.

In All’«Anonima» la questione tra i comunisti e il parroco della Bassa riguardava, per l’appunto, il luogo in cui celebrare dell’Eucarestia: non in chiesa perché il Partito non voleva, né alla Casa del Popolo perché don Camillo non avrebbe mai accettato di celebrarla lì. Peppone ebbe la “geniale” intuizione: svolgere la liturgia all’“Anonima”, un gran baraccone fuori dal paese.

«“Voi verreste qui: sotto quelle tre tettoie ci stiamo tutti. Qui siamo in campo neutrale: la distanza da qui alla Casa del Popolo è uguale alla distanza da qui alla chiesa. Dio è dappertutto e quindi Lui resta dov’è e nessuno gli dà dei fastidi: ci muoviamo noi e ci incontriamo a metà strada. Gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo. Insomma: se la montagna non vuole andare a Maometto e Maometto non vuole andare alla montagna, Maometto e la montagna vanno tutt’e due all’Anonima e buonanotte suonatori.”

Don Camillo si alzò. “Ci penserò” disse andandosene.

Peppone rimase solo vicino al fuoco che ardeva sotto la tettoia della vecchia fabbrica abbandonata.

“Se il Padreterno non è un fazioso” pensò “deve capire che queste storie non le facciamo per lui”».

Questo episodio ci mostra come “tutto” debba partire da un desiderio, un desiderio d’amore che si trasforma in un canto di gratitudine. Il racconto di Guareschi ci ricorda, infatti, che prima di ogni altra cosa il momento centrale e fondamentale per la comunità cristiana è l’Eucaristia, cioè, come dice il vocabolo greco, un ringraziamento. È un canto di gratitudine al Padre, elevato dal «Cristo totale», cioè dal Signore Gesù, «capo del corpo» (Col 1,18), e dalla Chiesa, sua Sposa (cfr. Ef 5,21-33). Ma come possiamo concretizzare nella nostra vita questo “canto” senza farlo rimanere qualcosa di astratto? Mi è venuta in mente la figura del Venerabile Marcello Candia (1916-1983), imprenditore milanese che a quasi cinquant’anni ha donato tutta la sua fortuna (si parla di miliardi!) ed è andato tra i più poveri dei poveri del Brasile e ha costruito un Ospedale per loro. è rimasto laico, non si è sposato né si è consacrato a Dio, ma ha continuato a fare l’imprenditore dall’altra parte dell’Oceano: prima aveva guadagnato per sé, poi per i fratelli bisognosi. La sua figura ci insegna l’importanza di una vita spirituale intensa, che – nella pratica – vuol dire non legarsi mai alle “cose”, fossero anche solo meritate gratificazioni, per non diventarne schiavi. Anzi Candia si era – addirittura – allontanato dalla guida di quello che lui aveva ideato, creato e fondato, pur continuando a lavorarci (e duramente), avendo in mente unicamente il bene altrui: «Non è cristiano – ha lasciato scritto – realizzare se stessi in un’opera. Bisogna realizzarsi in Dio. Se avessi voluto realizzarmi in un’opera avrei potuto fare un altro stabilimento a Milano… Nell’Ospedale non ho cercato la mia realizzazione, quindi l’ho ceduto volentieri. È stato bene che l’abbia cominciato io e portato avanti con i soldi che Dio mi ha dato. Ma poi bisognava rendersi inutili. Anche perché chi viene dopo deve essere libero di portare un rinnovamento; altrimenti, se fossi rimasto io il direttore […] frenavo il progresso. Invece mi sono ritirato, e cerco soldi perché voglio che siano liberi».

Da dove questa forza di chi, da ricco che era – che è il bel titolo dell’altrettanto bel libro del mio amico Giorgio Torelli, che tratta delle vicende di Marcello –, lascia ogni cosa per andare a condividere il peggio tra i più miseri del mondo? La risposta di Candia è chiara: la preghiera, ovvero la relazione con il Salvatore, che continuamente per noi si dona nell’Eucaristia. Quando si reca al lebbrosario di Marituba, mantenuto dal Governo in condizioni disdicevoli, si impegna per dare dignità a quelle persone che oramai l’avevano perduta sia per la malattia sia per come erano trattate. Oltre a sistemare i padiglioni degli ammalati a sue spese, decide – risoluto – che all’interno del lebbrosario doveva esserci una Casa di preghiera: era il luogo in cui poteva espandersi la speranza come emanazione della salvezza. Spiega Marcello: «Quando sono venuto a Macapá la prima volta avevo molti mezzi economici, e volevo spendere tutto per fare un Ospedale e altre opere. Ero un uomo religioso, ma con buoni mezzi umani, e contavo molto su di essi e sulla mia esperienza di organizzatore. Poi, quando ho incontrato davvero i poveri, i lebbrosi, gli handicappati, quando mi sono trovato di fronte a tanti casi umani, mi sono accorto che se anche avessi costruito una organizzazione perfettissima per curare i corpi, non avrei risolto i problemi di questa gente. Ho capito allora che la priorità assoluta è quella spirituale: tutti i mezzi economici e tecnici contano, e bisogna usarli, ma non valgono nulla se non sono accompagnati dall’amicizia, dall’attenzione alle persone, dall’aiuto di Dio». E precisava ancora: «per avvicinarsi a dei malati gravi, a poveri che non hanno più speranze umane, a sofferenti abbandonati da tutti ci vuole una preparazione di preghiera e di contemplazione. Quando tutte le speranze umane vengono a cadere, rimane solo Dio».

Marcello Candia era un semplice battezzato: nato imprenditore morirà tale, anche se al soldo di Dio. Ha fatto umanamente grandi cose, ma il “miracolo” è che dopo quarant’anni la sua Fondazione continua la sua opera appoggiandosi solo sulla Provvidenza. Per noi è una grande testimonianza perché ci fa dire che nell’Eucaristia, nel rapporto con il Cristo, la nostra vita può essere un canto di gratitudine, nonostante le fatiche e il dolore. L’amore di Dio, infatti, è ciò che ci sostiene nel cammino della vita, ci dà coraggio per superare gli ostacoli che incontriamo, ci dona la grazia per vivere davvero da fratelli.



 

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