29 luglio 2021

La complessità cattolica contro l'indifferentismo antropologico

di Giorgio Salzano

Insomma, le cose sono complesse. Oggi più che mai. Non c’è umana esperienza se non della complessità, è sempre esperienza di un insieme articolato di cose e persone che costituiscono il mondo, che di per sé è singolare: anche se parliamo di “mondi”, la loro pluralità rinvia sempre al senso del mondo unitario che essi costituiscono. Ciò vuol dire che l’esperienza della complessità ha luogo su uno sfondo di semplicità, della quale però non abbiamo in quanto tale esperienza. Tradizioni di pensiero grandi e piccole hanno reso conto di questa esperienza, costitutiva del mondo – indissociabilmente natura e società – a cui gli uomini prendono parte. Ma la pluralità di società e tradizioni contribuisce alla complessità, tanto più quanto più le comunicazioni si estendono da piccole cerchie di uomini ad ampli ambiti di civiltà, diffusi su enormi estensioni territoriali, fino alla odierna globalizzazione, o come io preferisco dire, planetarizzazione del mondo all’intera umanità. Con l’estensione delle comunicazioni la complessità sale cioè di grado, poiché riguarda il complesso dei diversi modi locali di render conto della complessità dell’esperienza con il suo sfondo di semplicità. E qua cominciano le dolenti note.

Due posizioni si contrappongono al riguardo in quello che si è chiamato Occidente (espressione ormai senza senso, perché, affacciatisi sul Pacifico, occidente sono il Giappone, la Cina eccetera, che mantengo però per evitare il lungo ed ingombrate “paesi di matrice culturale europea”): una definitasi “laica” o “secolare”; l’altra, beh, diciamo pure “cattolica”, nell’uso volgare della parola dal bruto riferimento ecclesiale. Uso volgare, dico, per due ragioni: poiché intende il cristianesimo tradizionale, e dovrebbe perciò includere anche la Chiesa ortodossa; e perché questo uso non tiene conto del significato della parola, che vuol dire “universale”. Che questo sia il significato, viene purtroppo dimenticato anche da troppi che si chiamano “cattolici”. Non ci rendiamo quindi conto che abbiamo qui a confronto due pretese di universalità. Universale si vuole infatti la posizione “laica”, in quanto si pretende neutra rispetto a tutte le tradizioni, solo opinioni o credenze rispetto alla scienza di cui essa dispone. Le dolenti note riguardano la capacità dell’Occidente, così diviso tra queste due posizioni, di render conto di sé e delle alternative pretese di universalità rappresentate diciamo da Cina, India, Islam.

Congedandosi dagli apostoli, Gesù ingiunse di andare e fare discepoli tutti i popoli, «battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» e insegnando a osservare tutto ciò che egli aveva comandato (Matt. 28, 19-20). Lo strano oggi, che tutti i popoli della Terra (non sappiamo se ve ne siano altrove), possono davvero essere raggiunti, pare che i cristiani non sappiano più bene che cosa devono insegnare loro. Almeno in bocca a tanti esponenti del magistero, a cominciare dal capo della Chiesa Cattolica, ciò che Cristo aveva comandato sembra risolversi in una sorta di “volemose bene” di carattere universale. E non un “siate come me”. Chi lui fosse fa in effetti problema, dopo millenni di dispute teologiche non ne siamo più sicuri. Il buon Jorge Mario predica la fratellanza universale, ma sembra esitante (almeno stando ai discorsi riportati pubblicamente dai media) quando si tratta di dire che siamo fratelli in Cristo, in quanto egli ci rende figli adottivi di quel Padre di cui egli è il Figlio unigenito. Non è cosa per noi facile da capire, e non sto qua a cercare di spiegarla. Noto solo che il “tutti fratelli” di Bergoglio suona come una semplificazione moralista di una realtà nella quale siamo ben lungi dall’essere tali, ma possiamo diventarlo a certe condizioni: la “buona volontà” (cancellata chissà perché dal Gloria) aiutata dalla grazia (che è divina per definizione).

Il pover’uomo non comprende la complessità odierna, perché non comprende la complessità di altri tempi e luoghi. Nel suo atteggiamento benevolente verso i migranti, questi assumono un carattere di indifferenziata umanità, che in effetti li deumanizza nella loro appartenenza originaria a determinati gruppi sociali con la loro cultura (o religione che dir si voglia). Non tiene conto cioè della originaria complessità del naturale essere uomini in società, elevata di grado quando piccoli gruppi furono unificati in grandi imperi, come è accaduto ad esempio nel caso della Cina, o dei popoli unificati manu militari dall’impero romano. Forse, se avesse qualche nozione socio-antropologica del passato, potrebbe rendersi conto che il Cristianesimo seppe con il suo insegnamento dare la chiave di comprensione di quella complessità, e che perciò in quanto tale ha ancora da dire sulla accelerata estensione delle comunicazioni in un mondo planetarizzato.

Purtroppo la recente teologia non è d’aiuto al magistero. Non comprendendolo, ha abbandonato l’insegnamento tomista che Leone XIII aveva promosso a fine Ottocento, per entrare in dialogo con la filosofia moderna: essenzialmente antropologia senza qualificazioni, il cui soggetto è alternativamente o “l’io” o “l’uomo”, privo di qualunque determinazione di derivazione socio-culturale (in effetti, e la cosa ha oggi conseguenze devastanti, anche biologica). Essa appare perciò come incantata, paralizzata cioè, dalla odierna complessità della convivenza di tradizioni diverse in cui il senso de “l’io” o “l’uomo” si è determinato storicamente. Mentre la teologia dogmatica continua a riflettere su ciò che è proprio dell’insegnamento cristiano, la base per un dialogo con altre tradizioni non viene cercato in essa, ma nella indeterminazione antropologica della così detta filosofia moderna. La quale però soffre di un peccato originale, di avere cioè messo tra parentesi la originaria determinazione degli esseri umani nella loro appartenenza sociale. Viene ignorata l’originaria complessità di cui ho parlato, bene rappresentata dalla grammatica, per la quale il pronome “io” ha senso solo come riferimento a sé di chi parla, in rapporto con altri che sono “tu”, “voi” e “noi”, gli uni e gli altri identificandosi in discorsi in terza persona con nomi che li situano nel mondo (come uomini e donne nella sequenza delle generazioni).

«Una società – diceva a suo tempo Claude Lévi-Strauss in Antropologia strutturale – è fatta di individui e di gruppi umani che comunicano tra loro. Eppure la presenza e la mancanza di comunicazione non può essere definita in maniera assoluta. La comunicazione non cessa alle frontiere della società. Più che di frontiere rigide, si tratta di soglie, contrassegnate da un indebolimento o da una deformazione della comunicazione, e in cui, pur senza scomparire, quest’ultima passa a un livello minimo.» La sua lezione pare però oggi dimenticata, per l’ansia in Occidente di non affermare se stessi a spese di altri – ovviamente finendo così per affermare se stessi a spese di altri. Ciascuna tradizione andrebbe compresa per se stessa, ma questo vuol dire in effetti comprendere come essa definisce le soglie significative, da superare per identificarsi come appartenenti a una certa società con la sua tradizione. L’insegnamento di Cristo alla base della sua ingiunzione di andare e insegnare a tutte le genti, è che non c’è altro segno di possibile appartenenza alla sua società se non la semplice corporeità umana. Per chi lo aveva visto morire e poi lo ha rivisto vivo la soglia che ha superato è quella della morte fisica: passaggio che fa riconoscere in lui, nelle parole di san Giovanni, il “logos fatto carne”.  

Le cose dunque non sono mai state semplici. Semplice nelle testimonianze degli uomini è solo la divina unità. Il Cristianesimo ha visto svelato invece nella persona di Cristo che perfino la divina semplicità è complessa, affermando che Dio è tre persone in una unica natura. Difficile da capire: una semplicità complessa. Tanto è vero che le indicazioni al riguardo contenute nel Nuovo Testamento dettero luogo a controversie, che si risolsero a Nicea e a Calcedonia con la definizione della dottrina cristiana, trinitaria e cristologica; ma con strascichi che si prolungarono nei secoli, in una progressiva incomprensione di Latini e Greci che si risolse nello scisma di Cattolici e Ortodossi. Sappiamo bene – è una lunga storia – che le divisioni non si fermarono là, ma furono seguite dalla Riforma protestante, risoltasi dopo due tre secoli in una esegesi biblica che rimette in discussione la lettura della Bibbia fatta a Nicea e Calcedonia. L’insegnamento cristiano definito da quella lettura fa problema, anche perché non se ne comprende la rilevanza per la comprensione dell’odierna complessità a partire dalla complessità originaria. Esso rappresenta una esegesi dell’affermazione giovannea che “Dio è amore”, non solo ad extra, in quanto bene che si riversa sul creato e sugli uomini, ma anche ad intra, in se stesso. L’amore tra gli uomini diventa con essa l’analogante primo dell’analogato che è Dio. La comparazione antropologica attesta che l’amore che avvertiamo come sentimento non è che il riflesso soggettivo dell’essere in amore. In altre parole, l’essere in relazione è il sempre nuovo convergere nella relazione, uscendo fuori di sé (e da qualunque proprio gruppo di appartenenza) per donarsi ad altri che reciprocamente fanno lo stesso. Non potremmo amare se già non fossimo stati amati, in un circolo diciamo pure sacrificale, per cui ciascuno dà da una parte la vita che ha ricevuto dall’altra. Nella complessità umana le persone non si identificano nella loro corporeità con le relazioni in cui sono coinvolte, nella semplicità divina invece l’essere delle persone coincide con il loro essere in relazione.

Mi devo fermare, ben consapevole che questi bevi accenni di comparazione antropologico-teologica rischiano di risultare oscuri al lettore ordinario, che non posso fare altro che rimandare ai libri che ho scritto al riguardo (Il dono proibito, Democrazia regale, Inferno purgatorio paradiso). Spero solo che egli possa almeno aver tratto da quanto detto il senso del perché della mia avversione ai discorsi bergogliani sui migranti. Che ho tacciato di semplicismo, poiché non mostrano di tenere conto che essi sono pur sempre portatori di una identità culturale definita da una certa cerchia di relazioni scambievoli, poco o per nulla preparati a prendere parte alle nuove relazioni scambievoli nelle quale entrano. La situazione mondiale di complessità che spinge a migrare è tremenda, ma non se ne può porre tutto il peso su chi è chiamato ad accogliere, con un tono di rimprovero verso chi – cattivo – non lo vorrebbe fare. La Chiesa rischia così di diventare la cappellana delle nuove elite cosmopolite, con il loro indifferentismo antropologico presunto “laico”. Nelle nuove relazioni sono coinvolti tutti, chi accoglie e chi è accolto, e a tutti si indirizza l’insegnamento di Cristo, a chi lo aveva già ricevuto e a chi ancora lo deve ricevere.


 

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