22 aprile 2021

Il miglior gesuita


di Giorgio Salzano

Mettiamola così: il problema è chi sia il miglior gesuita. Una volta Carlo Huber S.J., professore di filosofia della conoscenza all’Università Gregoriana e amico di famiglia, mi disse: il motto del buon gesuita è “entrare per la tua porta e uscire dalla mia”. Motto grandioso di sapienza retorica, perché riconosce che non vi può essere conversazione senza luoghi comuni di discussione, e quindi socraticamente concede all’interlocutore le sue tesi, per mostrare che esse in fondo conducono alle proprie: per il gesuita all’unica tesi che è la rivelazione di Dio in Gesù Cristo. 

Non pretendo di essere il miglior retore di questo mondo, voglio dire il miglior conversatore, sempre all’erta nel concedere all’interlocutore quel tanto che può essere concesso, senza assumere nelle discussioni più cose in comune di quante ve ne siano, così cacciandomi in trappole dalle quali è difficile uscire. Devo però dire che quel motto mi è piaciuto, perché quando sono al mio meglio mi attengo nel discutere le affermazioni altrui a un “si, ma”. Sì, bello dunque il motto, ma pericoloso. Il pericolo non è nel motto, ma nelle cose stesse, nella difficoltà della conversazione, perché sia dialogo non volto a con-vincere l’interlocutore ma a convenire in ciò che diciamo, lui con noi e/o noi con lui: con una parola oggi quasi tabù, nella verità. 

Consideriamo la storia della teologia. A cominciare dal san Paolo. Non abbiamo un’idea precisa di come egli predicasse, anche se gli Atti degli apostoli ce ne danno un accenno. Si trattava di annunciare un messaggio di origine ebraica ai non ebrei. Il famoso episodio della sua predica all’Areopago ci fa vedere come egli si agganciasse per farlo a qualcosa di condiviso dagli ateniesi: il primo “gesuita”? 

Sappiamo che i Padri della Chiesa, a cominciare dagli apologisti, procedevano in questa maniera: rendevano conto criticamente della vecchia cultura ellenistica integrandola nell’annuncio cristiano dell’avvento del “regno di Dio” nella persona di Cristo. In risposta alle sfide che quella cultura presentava nella determinazione del senso di questo annuncio, prendeva dunque forma la dottrina cristiana, che nei concilii, da Nicea a Costantinopoli, ne precisava i due insegnamenti (dogmi) fondamentali: dell’essere Dio una natura in tre persone (dogma trinitario), e dell’essere la seconda di queste una persona in due nature (dogma cristologico). Così la vecchia cultura detta pagana diventava lentamente la nuova cultura cristiana, destinata a diffondersi dalle élite intellettuali al popolo.

Non è questo il luogo per seguire lo sviluppo di questa diffusione, con le diversità che essa presenta nell’Oriente e nell’Occidente di quello che era stato l’impero romano. In ogni caso la dottrina cristiana definita dai Padri subiva una diversa articolazione teologica a seconda dell’uditorio al quale la sua predicazione era indirizzata. Voglio solo ricordare l’importanza nell’Occidente dell’ordine di san Benedetto, l’impronta monastica che esso dava alla teologia, ma anche la preservazione grazie ad esso di quel che ci è rimasto della cultura antica. Ci sono poi le sue riforme dopo l’anno mille, gli ordini mendicanti e quindi l’avvento della scolastica. La società si trasformava, cambiava l’uditorio, e con esso la teologia. Intatta restava però la dottrina definita dai Padri, in particolare per l’Occidente da sant’Agostino. Fino all’agostiniano Lutero, quando i suoi problemi spirituali venivano dal lui universalizzati nell’interpretazione della dottrina, con una riforma che per altre ragioni trovava un pubblico ben disposto. 

Siamo, ricordiamo anche questo, ai tempi della scoperta dell’America e dell’aprirsi planetario del mondo con i susseguenti viaggi di esplorazione. Per contrastare la Riforma, ma anche con vocazione missionaria fuori d’Europa, sant’Ignazio di Loyola fondava la sua “società di Gesù”. Lo spirito e la forza dell’ordine ignaziano era negli esercizi spirituali, più che in un particolare orientamento teologico, come quello che aveva improntato ad esempio domenicani e francescani. E in questo sta il pericolo latente nel motto di cui ho parlato.

La pratica e la teoria dell’arte di fare discorsi persuasivi, in una parola la retorica, era stata oggetto di riflessione critica da parte di Platone, che denunziava la pretesa dei sofisti di fare a meno nel suo esercizio della verità: senza di questa, egli notava, essa diventa pura seduzione – così come accade con la neo-sofistica odierna. Nel contesto di riflessione filosofica che da lui prese impulso, essa è rimasta oggetto di studio per quasi due millenni. Ricordiamo Cicerone, ricordiamo Quintiliano, ricordiamo soprattutto che sant’Agostino era insegnante di retorica. Essa era passata dall’epoca imperiale romana al così detto medioevo come parte del trivio delle artes liberales: grammatica, retorica e dialettica. Nell’ordo studiorum delle scuole gesuite era propedeutica alla filosofia ed alla teologia. Viva era in esse la rinnovata consapevolezza della problematica retorica: di come indirizzarsi a interlocutori, a un uditorio dentro e fuori d’Europa di idee più meno lontane dalle proprie, con il quale è necessario trovare luoghi comuni ci convergenza. Da qua ha origine quel motto. Ma, per quanto poco teologo fosse formalmente sant’Ignazio, la sua “porta” era quella della rivelazione di Dio in Gesù Cristo come era stata in precedenza definita nella Chiesa cattolica. Questo significa che, per essere un buon “gesuita”, si deve avere un chiaro senso della cattolicità ovvero universalità di quella rivelazione, in quanto manifestazione del “logos fatto carne”, che non può non abbracciare tutti i logoi degli uomini. Solo a tali condizioni è possibile entrare per l’altrui porta uscendo dalla propria. Altrimenti il rischio è di assumere la “porta” altrui come riferimento primario al quale si finisce per adattare anche la propria. 

Il rischio del motto gesuita sta dunque nella scelta degli interlocutori. Lo abbiamo visto ad esempio in un gesuita torinese trapiantato a Milano, e lo vediamo nel famoso gesuita argentino. 


 

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