In questo tempo di virus, la Pasqua ci ricorda l’importanza di ciò che conta per davvero. Non bisogna prendersi, pertanto, troppo sul serio, perché «la serietà non è una virtù», come diceva Chesterton. Inoltre, non soltanto la bellezza[1], che è pure una piacevolissima opportunità, ma soprattutto la gioia[2] può salvare il mondo e il mondo può essere così salvato nella gioia dall’umorismo. E la gioia più grande è proprio data dalla Pasqua che ci ricorda la fortuna di avere un Dio che non si stanca dell’uomo e nel quale rinasce nel suo cuore ogni Natale per risorgere, nel caso, come questo, a Pasqua. Al di là e al di qua dell’umorismo, ci si deve, quindi, affidare per ottenere la vita eterna, bisogna cioè seguire con fiducia Cristo, il tesoro più prezioso.
E allora, evitando paroloni e altisonanti discorsi, possiamo auguraci la salvezza mediante una nota umoristica, che nel suo essere volutamente surreale, come i giorni che si stanno vivendo, ci permette di fare gli auguri di “Buona Pasqua!” parlando del Santo Natale. E chi ci può aiutare in questa riflessione se non Giovannino Guareschi in un racconto del suo Zibaldino (volumetto così intitolato perché «qualcuno informò cortesemente l’autore che un tal Giacomo Leopardi gli aveva rubato l’idea»[3] chiamando una sua opera Zibaldone). Tutta la faccenda prende avvio da Margherita, moglie di Giovannino, quando spiega al consorte che il modo di tirare su i figli è di rispondere loro, possibilmente gridando, sempre e solo un potente “Sì!!!” a tutte le richieste, anche a quelle più strampalate. Rispondere “No” a bassa voce, al contrario, non è contemplato, perché così aveva reagito lei al primo invito del futuro marito, ma poi l’aveva assecondato (fino a giungere all’altare).
«Forse Margherita ha ragione – ammette lo scrittore – quando dice che occorre la maniera forte coi bambini: il guaio è che, a poco a poco, usando e abusando della maniera forte, in casa mia si lavora soltanto con le note sopra il rigo. La tonalità, anche nei più comuni scambi verbali, viene portata ad altezze vertiginose e non si parla più, si urla. Ciò è contrario allo stile del “vero signore”, ma quando Margherita mi chiede dalla cucina che ore sono, c’è la comodità che io non debbo disturbarmi a rispondere perché l’inquilino del piano di sopra si affaccia alla finestra e urla che sono le sei o le dieci» (p. 213).
E, in questo clima, si giunge alle festività natalizie con tanto di poesia da imparare da parte dei due figli, Albertino e la Pasionaria. Rincasando la portinaia snocciola sarcastica a Giovannino i versi che la bimba non vuole mettersi nella testa. Siccome l’audio della sua genitrice era notevolmente alto, i vicini potevano ben sapere i progressi della figliola.
«Sei giorni dopo, il salumaio quando mi vide passare mi fermò.
“Strano” disse “una bambina così sveglia che non riesce a imparare una poesia così semplice. La sanno tutti, oramai, della casa, meno che lei.”
“In fondo non ha torto se non la vuole imparare” osservò gravemente il lattaio sopravvenendo. “È una poesia piuttosto leggerina. È molto migliore quella del maschietto: O Angeli del Cielo – che in questa notte santa – stendete d’oro un velo – sulla natura in festa...”.
“Non è così” interruppe il garzone del fruttivendolo. […] Nacque una discussione alla quale partecipò anche il carbonaio, e io mi allontanai» (p. 214).
Arrivata la vigilia il fornaio appare amareggiato, perché la Pasionaria è ferma ancora al primo verso, tuttavia la questione si può finalmente chiudere in modo definitivo. E qui il racconto va gustato tutto, perché vero capolavoro di umorismo (che salverà il mondo).
«Margherita, la sera della vigilia, era triste e sconsolata. Ci ponemmo a tavola […]. Poi venne il momento solenne.
“Credo che Albertino debba dirti qualcosa” mi comunicò Margherita.
Albertino non fece neanche in tempo a cominciare i convenevoli di ogni bimbo timido: la Pasionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e già aveva attaccato decisamente:
“O Angeli del Cielo – che in questa notte santa – stendete d’oro un velo – sul popolo festante...”.
Attaccò decisa, attaccò proditoriamente, biecamente, vilmente, e recitò, tutta d’un fiato, la poesia di Albertino.
“È la mia!” singhiozzò l’infelice correndo a nascondersi nella camera da letto.
Margherita, che era rimasta sgomenta, si riscosse, si protese sulla tavola verso la Pasionaria e la guardò negli occhi.
“Caìna!” urlò Margherita.
Ma la Pasionaria non si scompose e sostenne quello sguardo. E aveva solo quattro anni, ma c’erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, George Sand, la Dubarry, il ratto delle Sabine e le sorelle Karamazoff.
Intanto Abele, dopo averci ripensato sopra, aveva cessata l’agitazione. Rientrò Albertino, fece l’inchino e declamò tutta la poesia che avrebbe dovuto imparare la Pasionaria.
Margherita allora si mise a piangere e disse che quei due bambini erano la sua consolazione.
La mattina un sacco di gente venne a felicitarsi, e tutti assicurarono che colpi di scena così non ne avevano mai visti neanche nei più celebri romanzi gialli» (pp. 214-215).
Che resta da dire? Ah, sì, alla Totò, possiamo concludere questo augurio sui generis con un: “Signori e signore, grazie a tutti, arrivederci, tante belle cose e buona Pasqua!”.
[1] «è stato detto con profonda intuizione che “la bellezza salverà il mondo” [F. Dostoevskij, L’idiota, p. III, cap. V, Milano 1998, p. 645]» (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999).
[2] Dichiara Ermanno Olmi a riguardo dei film di Bud Spencer e Terence Hill: «Adesso, giunto a quell’età dove si può sostare quietamente sulla sponda del buon senso, mi sono fatto l’idea che a salvare il mondo non sarà soltanto la cultura, e neppure la bellezza, che pure e una piacevolissima opportunità, ma che potremo davvero scampare al declino di civiltà se sapremo praticare la strada maestra della gioia» (citato in S. Pinna, Spaghetti con Gesù Cristo! La «teologia» di Bud Spencer, Àncora 2017, p. 89).
[3] G. Guareschi, Lo Zibaldino, BUR, Milano 20188, p. 11. La storia, invece, s’intitola Fu a Natale, nel ’47 (pp. 212-216). Pubblicato il 14 aprile 2020
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