29 marzo 2020

Siamo schiavi del nostro tempo

di Marco Sambruna
Nell’attuale crisi virale un dato emerge ormai con cruda evidenza: noi tutti o quasi siamo schiavi del tempo.
Di fronte alla non remota possibilità della catastrofe si reagisce generalmente in tre modi: con mesta rassegnazione apatica da parte di molti, con pulsioni epicuree goderecce da parte di qualcuno e infine col ricorso alla razionalizzazione intellettualistica da parte di un’élite.
Modi di reagire molti diversi fra loro, ma accomunati dall’incapacità di cavalcare il tempo e in qualche modo di trascenderlo: anche in una situazione come questa le risposte sono racchiuse nell’involucro soffocante della dimensione temporale generate da un discrimine iniziale.

Cioè non ci si domanda più cosa è giusto fare o non fare rispetto alla complessità delle circostanze, ma ci si chiede innanzitutto se quello che si sta per dire è progressista o reazionario, politicamente corretto o impopolare, conforme al narrazione corrente o alternativa a essa. In base a questi criteri si esprimono opinioni che a prescindere dal contesto sono improntate al prono adeguamento alla cultura dominante; in una parola il criterio guida è quello dell’omologazione.

Ogni affermazione non può derogare alla dittatura del conformismo: si sprecano così consigli su come passare il tempo tra internet, pay tv, libri e musica e le analisi intellettuali che quasi sempre indicano nel senso civico e nei comportamenti urbani l’antidoto allo scoramento come se io potessi trovare conforto dalla quarantena pensando che tutto sommato posso tranquillamente proseguire a fare la raccolta differenziata.

La crisi viene così sezionata, segmentata e analizzata al fine di ridurla alle sue sole ricadute emotive: del resto la nostra è l’epoca dove lo psicologo e lo psichiatra hanno preso il posto del prete e dove la relativizzazione del reale ha preso il posto dei dogmi religiosi. La parola d’ordine è igienizzare, sanificare e sterilizzare qualsiasi riferimento ultra temporale. Ci si deve muovere entro il perimetro asfittico del tempo, vietato trascenderlo.

L’altro giorno è stata organizzata una diretta streaming che è consistita in una maratona intellettuale intitolata “Prendila con filosofia”: in pratica per 12 ore un gruppo di personaggi alcuni dei quali noti, altri sconosciuti - ma tutti certo di ottima levatura culturale - hanno cercato di dare una risposta razionale al disagio generato dall’epidemia. Fermo restando che la filosofia non è un mero lenitivo incoraggiante bensì l’indagine sulle cause prime, è sufficiente dare uno sguardo alla lista degli intervenuti per rendersi conto che almeno i più celebri fra i partecipanti appartengono tutti o quasi all’area del progressismo liberale il che va benissimo se si tratta di ascoltare anche il loro contributo, ma non va per niente bene se il loro è l’unico punto di vista rappresentato. Non ho visto la maratona nemmeno in parte, ma ho assistito a iniziative simili: in genere tra i partecipanti a questi dibattiti c’è da scommettere che non si troverà mai un teologo tomista o un filosofo identitario e nemmeno un pensatore metafisico.

D’altra parte la nostra non è un tipo di civiltà che premia chi osa arrischiarsi oltre i rassicuranti confini del consiglio buonsensaio, del pedagogismo più svenevole, degli argomenti tesi al rinforzo “dei nostri valori” che nemmeno la crisi deve porre in discussione anche quando alcuni di quei presunti valori hanno facilitato il disastro.
E’ tutto un proliferare di slogan ripetuti innumerevoli volte come una litania: da quello che recita che “i virus non conoscono confini” il che è vero, ma solo se i confini non sono sorvegliati o che “è il momento dell’unità, non delle polemiche” come se fosse opportuno solidarizzare con chi da prova di negligenze a quelli che in varie formule tendono a criminalizzare il vecchietto che passeggia in solitario o il giovane che porta il cane a mingere in un parcheggio deserto o Trump che ha agito con colpevole ritardo come se invece in Italia non fossimo stati altrettanto superficiali.

Qualsiasi spiegazione, risposta o analisi è buona purché non alluda nemmeno velatamente alla questione fondamentale, l’unica che conta, cioè porsi l’interrogativo se forse il nostro benessere, la nostra salute e il nostro futuro dipendono da realtà che ci eccedono o da dinamiche ultraterrene verso le quali vale la pena riconnettersi.
C’è speranza finché non si hanno troppe convinzioni riguardo le proprie certezze perché così come il credente può avere dei dubbi verso ciò in cui crede anche l’ateo o il materialista o l’agnostico non possono escludere di avere torto.
Bisogna veramente cominciare a preoccuparsi quando il pensiero sembra essere entrato in una nuova fase: quella del nichilismo non solo esperito personalmente, ma anche organizzato collettivamente e mediaticamente per cui si finisce col veicolare la convinzione autolesionistica che nulla valga la pena tranne desertificare ciò che ancora è fecondo.


 

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