01 agosto 2018

Arrivederci don Camillo

 di Samuele Pinna
Era una fresca mattina estiva con quella dolce aria frizzante, dovuta alla pioggia che era venuta giù prepotente tutta notte, e il cielo rasserenato era di un azzurro terso, difficile da vedere solitamente in città. Una giornata, insomma ideale per il nostro pretone, che stava per recarsi nel suo luogo di “riposo”. Per partire si deve essere pronti e don Augusto si era preparato a puntino. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via, ma era fiducioso che, neppure in quella occasione, che un poco si era cercato, Dio lo avrebbe lasciato solo. Ed era sorretto, sempre invero, da questa speranza. Del resto, l’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei differenti periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non ne abbia bisogno altre. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore o quella di una certa posizione nella professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre e che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa cioè che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere. Ecco perché don Augusto era sereno, aveva già fatto esperienza di quell’Infinito e non se ne sarebbe mai privato per nulla al mondo.
Nei nostri giorni, invece, l’uomo ha sviluppato la speranza dell’instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e a una politica scientificamente fondata, pare abbia tutta l’aria di potersi realizzare. Così, anche per i cristiani, la speranza del Regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero “paradiso”. Tale appare, tutt’oggi, la grande e realistica speranza di cui l’uomo ha bisogno. Ma a guardare bene le cose, rileggendo cioè con onestà la storia, è chiaro che questa speranza sta fuggendo sempre più lontano. Innanzitutto, ci si può facilmente rendere conto che questa è una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per il tempo presente. E benché il “per tutti” faccia parte della grande speranza – non posso, infatti, diventare felice contro e senza gli altri – resta vero che una speranza che non riguardi me in prima persona non è neppure una vera speranza. Sicché, pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della mia odierna speranza.
“Quando è migliore il mondo?”, si chiese un riflessivo don Augusto in una sera d’estate, mentre si rincorrevano le rondini e la calura pomeridiana lasciava spazio alla frescura della sera, “Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si può valutare il suo essere buono? E per quali vie si può raggiungere questa bontà?”.

Poi, aveva scovato quanto aveva scritto un santo Papa, secondo cui noi abbiamo la viva necessità di sperimentare delle speranze – grandi o piccole – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino.
«Ma senza la grande speranza che deve superare tutto il resto, esse non bastano». Il nostro pretone aveva pronunciato con ammirazione e voce stentorea queste righe, tanto da far prendere il volo a un simpatico merlo che si era appollaiato sul suo davanzale. Appena il pennuto era riatterrato, don Augusto aveva ripreso a leggere.
«Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo Regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo Regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita».
Il nostro reverendo fece, pertanto, armi e bagagli e si convinse ad andare deciso verso il luogo del suo esilio, dove – ne siamo convinti! – lo attenderanno nuove inevitabili avventure.
La vicenda era, però, trapelata, perché gli ambienti parrocchiali non sarebbero davvero tali se non fossero abitati da persone pettegole. Un Papa della prima ora, aveva già detto: «Teniamoci lontani da ogni mormorazione e maldicenza, e pratichiamo la giustizia non a parole, ma nelle opere. È scritto infatti: Chi parla molto, sappia anche ascoltare, e il loquace non creda di salvarsi per le sue molte parole (cfr. Gb 11, 2). Bisogna dunque che ci mettiamo di buon animo a fare il bene, poiché tutto ci è dato dal Signore». Nonostante il monito di san Clemente, la natura umana non è cambiata nel corso delle epoche. E, infatti, nel suo piccolo, la gente aveva condito il fattaccio combinato da don Augusto con aneddoti del tutto inventati, ma che in fondo davano più gusto al racconto. C’è chi rimase perplesso, chi esaltato e chi se fregò altamente.
Sta di fatto, che alla sua partenza, esattamente come quando era arrivato, gli si strinsero intorno diverse persone. Innanzi tutto, suo padre e sua madre che l’avevano aiutato nell’organizzazione del momentaneo trasloco. Oh, i genitori! Sono sempre una manna dal cielo, anche quando per troppo amore (o altro) fanno più danno che bene alla prole. Per un sacerdote, poi, sono un sostegno unico, medicina contro la solitudine e aiuto grandissimo. Oltre a loro non poteva mancare Giampaolo Fabbro che abbracciò il pretone con energico affetto.

«L’aspetterò», gli disse, «ancora più agguerrito e più preparato che mai!».
C’era anche Jonny, magro come un chiodo, ma con quel sorriso cordiale.
«Divertiti!», gli disse con quel suo italiano stentato, «E torna presto!».

Don Augusto si avvide che l’amicizia nata non era frutto del mutuo soccorso, ossia delle generose elargizione fatte a quel poveretto, ma un sentimento sincero da parte di entrambi. Forse può apparire poca cosa, ma è quello il modo di vivere la carità cristiana: non è dare qualche avere a chi non lo ha, ma costruire una relazione e un rapporto amicale, condividendo i doni di Dio e sapendo che chi ha di più deve pensare a chi ha di meno.
C’erano, inoltre, svariati parrocchiani capitanati dal sacrista, Pippo Girotti, che teneva una faccia da funerale.
«Mica parto per la guerra», lo aveva benevolmente rimbrottato don Augusto, «vado via per un periodo di riposo e di vacanza».
«E allora le auguro ogni bene!», aveva risposto l’altro con gli occhi lucidi.
Gli addii sono sempre tristi, ma quello per fortuna era solo un arrivederci, un breve commiato di un sacerdote tanto simile, per temperamento e carattere, al don Camillo di Guareschi di cui oggi si ha disperatamente bisogno. Un prete che sa stare tra le gente come pastore, senza confusioni di ruolo, cioè conscio che il pastore è colui che deve dare la vita per le pecore e che le conduce con questa attenzione e preoccupazione. Un pastore che striglia il gregge, perché lo ama e lo ama perché dopo aver conosciuto il suo Signore non è in grado di fare altro, ne potrebbe. Un pastore attento a ogni pecora: a quelle che riempiono di ammirazione solamente a guardarle e a quelle che si perdono nell’anonimato della massa.


Don Augusto sperimentò ancora una volta la gioia e le venne in mente la confessione di qualche giorno prima.
«Il cristianesimo», aveva detto il penitente, «è tutto un martirio e vivere nel dolore».
«No», aveva risposto il prete di città che fu di paese, «il cristianesimo è gioia, quella vera, iscritta nel profondo. Non quella superficiale che si attacca a un’esperienza e che, con quell’esperienza, svanisce. È la gioia di chi conosce la sua finitudine, ma non ne rimane abbattuto. Il limite, infatti – cioè il dolore e la sofferenza e, infine, la morte –, fa parte della nostra condizione, ma quella non è quella definitiva e ultima per l’uomo».
Fece una pausa per poi continuare, «Non intendo dire che bisogna solo aspettare la gioia dell’aldilà, ma che già qui possiamo pregustare quello che vivremo eternamente. La gioia è il segreto del cristiano, il quale non si accontenta di niente perché possiede già tutto e il resto è relativo a questo tutto che ha in sé e, pertanto, accresce la sua felicità con altre cose come il fiume che accoglie i flutti dei torrenti, suoi affluenti».
«Quindi», chiese l’altro, «la sofferenza fa parte dell’esistenza umana?».
«Sì!», riprese il nostro sacerdote di città, «Essa deriva, come dicevo prima, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, quella degli innocenti, calmare i dolori, aiutare a superare le limitazioni psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Si deve fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità. Questo perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Ciò potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che “toglie il peccato del mondo” è presente nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento».
«Pertanto», riprese il penitente, «possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla».
«È così», rispose il nostro reverendo, «proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore».

Aveva, infine, piazzato in mano all’uomo davanti a lui, come soddisfazione della confessione, la cosiddetta “penitenza”, una lettera di Pier Giorgio Frassati alla sorella.
“Carissima – si leggeva in uno stralcio –, mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà forza, sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro: la tristezza deve essere bandita dagli animi cattolici; la tristezza è una malattia peggiore di ogni altra, prodotta quasi sempre dall'ateismo; ma lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori”.
Quella partenza, gli sembrò davvero poca cosa rispetto a chi stava vivendo una grave sofferenza nel corpo e nello spirito. Ecco allora che l’ultima parola non poté che essere di gioia. E in quel momento si ricordò quanto gli era successo poche ore prima. Stava chiudendo una valigia, quando fu distratto da un suo libro che spuntava fuori prepotentemente dalla libreria. Lo prese tra le mani e, notando l’insofferenza della madre che desiderava quanto prima finire di sistemare, iniziò a leggere le ultime pagine a voce alta.
«La gioia», pronunciò quelle parole di Chesterton con solennità, tanto che sua mamma si fece attenta e si avvicinò per ascoltare meglio, «che era la piccola esternazione del pagano, è il gigantesco segreto del cristiano. E mentre sono sul punto di chiudere questo caotico volume riapro lo strano libretto da cui viene tutto il cristianesimo, e sono di nuovo tormentato da una specie di conferma. La tremenda figura che riempie i Vangeli sovrasta in questo aspetto, come per ogni altro, tutti i pensatori che hanno sempre creduto di essere più grandi. Il Suo pathos fu naturale, quasi casuale. Gli stoici antichi e moderni erano orgogliosi di nascondere le proprie lacrime. Egli non nascondeva le proprie lacrime: le ha mostrate apertamente sul Suo viso aperto a qualunque visione quotidiana, come quella lontana della Sua città natale. Tuttavia, ha nascosto qualcosa. Solenni superuomini e diplomatici imperiali sono orgogliosi di reprimere la loro collera. Egli non ha mai trattenuto la Sua collera. Ha rovesciato le mercanzie dai gradini davanti al tempio e ha chiesto agli uomini come pensavano di poter evitare la dannazione dell’Inferno. Tuttavia, Egli ha represso qualcosa. Lo dico con rispetto: c’era in quella personalità dirompente un tratto quasi invisibile, che potrebbe essere definito timidezza. C’era qualcosa che Egli nascondeva a tutti gli uomini quando saliva sul monte a pregare. C’era qualcosa che Egli occultava con un improvviso silenzio o con un impetuoso isolamento. C’era una cosa troppo grande perché Dio potesse mostrarcela quando è venuto sulla terra, e io qualche volta ho immaginato che fosse la Sua gioia».

 

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