14 luglio 2018

Filosofia, famiglia e confini negati/1

di Giorgio Salzano
(Informazioni sull'autore)
La filosofia, o almeno quello che così chiamiamo oggi (Antonio Rosmini la chiamava, con Platone, sofistica) è diventata cultura di massa. Raccontiamo tranquillamente la storia di una figura mitologica denominata “l’uomo”, che sarebbe emerso nudo dalla terra e si sarebbe quindi fatti degli abiti; e pretendiamo di identificare con questa figura “l’io” di ognuno di cui parla la psicologia, sull’esempio dei filosofi da Cartesio a Kant e oltre. Peccato che l’uomo di cui così raccontiamo l’ontogenesi – ossia lo sviluppo individuale – e la filogensi – ossia lo sviluppo come specie – non trovi riscontro nelle testimonianze degli uomini, che sempre attestano, nel loro stesso raccontare di come hanno acquistato gli abiti di società, di conformarsi con questi a dettami che li precedono, che non si sono perciò inventati ma hanno appreso. Ma testimoniano così anche di differenze di tradizioni, che determinano identità e confini. Superarli è il problema cruciale posto dall’allargarsi delle comunicazioni, che al giorno d’oggi è planetario; problema che la filosofia moderna diventata cultura di massa pretende di risolvere facendo semplicemente come se i confini non contassero niente. Negando i confini, si nega però la realtà di cui facciamo esperienza. Vediamo come questo si applichi esemplarmente alla famiglia.

Vorrei parlare di una cosa di cui nessuno parla: la proibizione dell’incesto, apparentemente l’ultimo tabù rimasto in materia sessuale nelle nostre società dette occidentali. L’unica volta che io ne ho sentito parlare pubblicamente fu anni fa, in una intervista televisiva di Marcello Pera quando era presidente del Senato, nella quale egli esprimeva il timore che anche esso finisse per essere superato; al che l’intervistatrice si fece scappare un “non esageriamo!”. No, non esagerava: se l’“amore” indifferenziato è elevato a criterio di matrimoniabilità (come in una famigerata sentenza della Corte Suprema americana), non vedo perché un fratello e una sorella non possano essere presi d’amore l’uno per l’altra e pretendere di sposarsi – o se per questo un padre e una figlia, o per quanto più difficile una madre e un figlio. La rivendicazione di diritti in materia sessuale porta così a quella che chiamerei entropia sociale.

Ci si vuole convincere, con un battage mediatico incredibile, che non c’è un solo tipo di famiglia, che pensare così è un segno di ristrettezza mentale poiché se ne possono concepire tanti tipi alternativi. A questo coloro che vogliono difendere la famiglia oppongono che no, che l’unica famiglia è quella naturale, composta da padre madre e figli. Ma rischiano così di darsi la zappa sui piedi. Non che io non sia d’accordo con quello che vogliono dire, ma dirlo in questo modo non colpisce nel segno. Mi spiego. Indubbiamente la generazione comporta sempre (anche quando è effettuata con tecniche mediche che evitano la copulazione) un padre e una madre, ma questo vale per qualunque specie animale, in particolare se parliamo di mammiferi: ancora non costituisce famiglia. Solo abbiamo famiglia, infatti, quando la generazione da fatto puramente biologico diventa anche sociale. Ora, è a questo diventare sociale che i propugnatori di una varietà di tipi di famiglia si appellano, con sullo sfondo una superficiale e mal digerita cognizione del suo essere stato disciplinato nelle diverse società in tanti modi diversi: dalla monogamia alla poligamia alla poliandria … Un serio studio comparativo di queste diversità, tuttavia, mostra che esse si riportano tutte a un unico principio: la proibizione dell’incesto appunto.

Vediamo di spiegare meglio: non c’è famiglia se non da famiglie, cioè non ci sono uomini e donne che in vacuo si piacciono e si accoppiano ed eventualmente fanno figli, ma ogni uomo e donna sono identificati dall’appartenenza a un determinato gruppo familiare (comunque determinato), dal quale essi dovranno eventualmente uscire per venirsi reciprocamene incontro e formare a loro volta un nuovo nucleo familiare. È una ovvietà, della cui osservazione non pretendo il copyright. Purtroppo l’ovvio sfugge per lo più all’attenzione, essendo dato per scontato. Per quel che mi riguarda la mia attenzione fu richiamato su di esso da un autore che godette di grande notorietà negli anni sessanta, Claude Lévi-Strauss, portato avanti dalla cultura di sinistra perché considerato il campione del naturalismo antropologico, ma in seguito da essa abbandonato quando si rese conto che il suo naturalismo aveva un sapore più classico che moderno. Fu lui il primo (o se non il primo, colui che lo ha fatto nella maniera più incisiva) a far notare che non si può ovviamente parlare di famiglia se non quando con la proibizione dell’incesto le relazioni biologiche della generazione e della consanguineità si iscrivono in una relazione di alleanza coniugale, che è sociologica.

Non so come mai la lezione di Lévi-Strauss sia passata pressoché inosservata nei discorsi pubblici sulla famiglia, soprattutto di chi ne vuole difendere il carattere diciamo naturale, in un senso non biologico ma umano (una volta si sarebbe detto di diritto naturale). Forse per un pregiudizio negativo nei confronti dell’antropologia socio-culturale in generale, fatta propria dalla antropologia (pseudo)filosofica corrente come dimostrazione dell’arbitrarietà degli ordinamenti normativi (culturali e legali) delle relazioni umane. O forse solo perché sembrava che il suo grande studio su Le strutture elementari della parentela riguardasse i popoli primitivi, senza incidenza nel nostro oggi. Eppure io sono convinto del contrario, che cioè il tabù dell’incesto possa essere utilizzato come base per difendere non soltanto la “famiglia naturale” di padre madre e figli, ma anche il matrimonio monogamico e indissolubile. Vediamo se riesco a spiegare in breve il perché.

La cosa tremenda, nella (pseudo)filosofia di cui esaminiamo la ricaduta sul concetto di famiglia, è che, al di là delle diversità di scuola, ha sempre come oggetto l’uomo adulto: a partire da Cartesio, che attribuiva le incertezze da cui gli sembrava piagato il sapere al suo essere stato appreso da bambino, e pretendeva da uomo adulto di ricominciare dall’inizio, con il fatidico “penso dunque sono” quale roccia sulla quale ricostituire il sapere nella sua interezza. Per quasi quattro secoli questa roccia si è venuta sbriciolando, ma ciò non scoraggia i maitres a penser del nostro tempo dal continuare in quella che potremmo chiamare una vera e propria negazione del bambino. Riconoscere di contro nell’osservazione dei bambini il bambino che ciascuno di noi è stato, può dare fondamento all’affermazione altrimenti vacua che il bambino ha diritto a un padre e una madre. Ciò che sempre e ovunque si mostra infatti nell’osservazione dei bambini è che noi acquistiamo coscienza di noi stessi in rapporto con altri nel mondo a partire dalle relazioni parentelari (parlo ovviamente di ciò che normalmente avviene, il che non è purtroppo sempre il caso; ma non sarebbe difficile mostrare che ciò resta vero anche quando la parentela biologica resta ignota). Non è dunque in questione nelle discussioni su sessualità e famiglia soltanto la formazione dell’identità sessuale di ciascuno, o più in generale della sua identità personale, ma la stessa capacità di pensare che insieme ad essa si sviluppa.

(continua)

 

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