di Francesco Filipazzi
(pubblicato anche su Barbadillo.it)
Pochi giorni fa Paolo Isotta scriveva, per il Fatto Quotidiano,
dell’accademia di
Villa Falconieri,
dove la lingua corrente è il latino e gli studenti, di varie nazionalità,
comunicano fra loro non con il solito inglese posticcio ma con la lingua
dei Padri.
Al cattolico tridentino non può che scendere una lacrimuccia, nel vedere
che il bell’uso di parlare nella lingua di Cicerone non è andato disperso,
ma trattasi di lacrima di dolore, perché laddove qualcuno recupera, altrove
qualcuno ha gettato alle ortiche.
Hanno cercato di farci dimenticare
, che fino agli anni ’60, l’interlingua ecclesiastica, a livello
accademico, era il latino, sia scritto che parlato, oltre che l’unico
idioma a livello liturgico. Gente formata, gli alti prelati di un tempo,
che pensava secondo forme e strutture che venivano da lontano. Perché la
lingua, prima che comunicazione, è ordine e il latino è un ordine
superiore. Nelle loro memorie lo ricordano ancora alcuni, come il cardinal
Sarah, che venne dall’Africa. Purtroppo però certa “iconoclastia” post
conciliare non ha risparmiato nulla e mentre fino a pochi anni fa tutti i
documenti della Santa Sede, per lo meno quelli dirimenti, erano pubblicati
anche in latino, oggi ce li ritroviamo tradotti in una sfilza di lingue. Ma
non in quella dei Padri. Va cancellata, in nome di quella rivoluzione
fallita di 50 anni fa, secondo cui la Messa va celebrata in volgareperché nessuno altrimenti capisce. Ma poi qualcosa deve
essere andato male, perché alla Messa in volgare non ci va nessuno, quindi
altro che capire. Per non parlare dei vuoti seminari, guarda caso pieni
solo se tridentini.
Dunque una parte consistente della Chiesa ha deciso di abbandonare un
patrimonio
, per via dei traumi generazionali di gente che pensava di cambiare la Catholica dall’interno. Ma levandole l’impalcatura latina non sono
stati in grado di sostenerla ed essa è a rischio crollo. La lingua è
struttura, dicevamo, forma mentis, stile di vita, visione del mondo. Il
latino è radice. Il latino dice esattamente ciò che vuole dire, non si può
indorare la pillola. Chi voleva annacquare doveva per forza eliminarlo. E
sappiamo com’è finita. Non a caso laddove, per lo meno nella liturgia, è
rimasto il greco, altra grande lingua dei Padri, ci sono
meno problemi. Noi però siamo latini e pensiamo ai nostri guai.
Va detto che il papa emerito Benedetto XVI ha cercato di porre qualche
rimedio, fondando nel 2012 la Pontificia Academia Latinitatis, la
cui missione è favorire “la conoscenza e lo studio della lingua e della
letteratura latina, sia classica sia patristica, medievale e umanistica, in
particolare presso le istituzioni formative cattoliche, nelle quali sia i
seminaristi che i sacerdoti sono formati e istruiti, nonché promuove nei
diversi ambiti l’uso del latino, sia come lingua scritta, sia parlata”.
Senza contare il motu proprio Summorum Pontificum sulla “messa in latino”,
che nonostante la diffusione popolare trova un’assurda avversione da parte
di vescovi e clero diocesano.
L’avversione al latino è diffusa anche nella società incivile.
Ci ritroviamo tentativi, ormai in procinto di andare in porto, di
sopprimere il liceo classico, mentre si inventano
cosiddetti licei scientifici senza latino. Per lo meno non
li chiamino licei. E si vergognino pure. La classe politica si sa, è quello
che è. Non possiamo pretendere che riconoscano il valore di qualcosa che
non immaginano (qualche luce nel buio c’è, vedi recente tentativo
dell’onorevole Frassinetti in commissione cultura al riguardo) e dunque lo
studio dei classici finirà appannaggio di ristrette Accademie elitarie. Con
buona pace dell’ascensore sociale. L’ascensore può anche scendere,
d’altronde.
L’istruzione, secondo lo spirito contemporaneo, deve essere solo utile.
Gli studenti devono studiare in inglese, neanche in italiano, non sia mai.
Il risultato non è altro che una lezione frontale impoverita, condita da
ridicolaggine. Recentemente mi ritrovavo in treno vicino a studenti che
studiavano in inglese. Stando attento mi sono accorto che studiavano
diritto costituzionale italiano. In albionico. E i licei dove si studia
letteratura italiana in inglese chi li ha partoriti? Tutto già visto,
intendiamoci, attraverso i secoli. Già il Salsicciaio di Aristofane, nei Cavalieri, faceva il
verso ai tecnocrati (che oggi sono pure esteromani).
La scuola deve essere solo utile per trovare lavoro.
Lavoro, che peraltro non c’è, quindi potremmo quasi concludere che la
scuola non serve, dunque chiudiamola come diceva Prezzolini, ma vabbé, non
esageriamo. Dunque troviamo un’occupazione a questi benedetti figliuoli,
mandiamoli a fare i programmatori.
Consiglio numero uno di un certo numero di esperti del settore, per
diventare buoni programmatori. Fare versioni di latino. Programmare in un
qualsiasi linguaggio (C, Java… decidete voi) è un’operazione logica
identica alla traduzione dal latino. Oibò. Mi prendi per il naso? No mio
caro, anche fare gli integrali è operazione simile. Ordunque pensare latino
e pensare matematico è la stessa cosa?
Andiamo avanti. Il latino non serve, dicono lorsignori.
Costa fatica diciamo, noi. Bisogna chinare la gobba. Diceva il buon Gramsci che si deve insegnare il latino, assieme al greco,
per insegnare alla gente come studiare e come elevarsi. “Se si vogliono
allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere
su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di
studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno”. Qui forse casca
l’asino. Il popolo deve essere bue, per portare il giogo.
Nella Chiesa qualcuno prova a salvare la situazione, recuperando liturgie e
testi della tradizione, con grave fatica e scorno, poiché ad oggi sembra
che l’ignoranza sia motivo di vanto dalla più piccola parrocchia alla più
grande diocesi (d’altronde, meglio non aprire il vaso di Pandora parlando
dei pessimi e improvvisati chitarristi che mal sopportano “l’esibizione”
dei professori d’organo) e dunque dimostrare di non sapere niente diventa
motivo di promozione. Fuori invece si procede alla decostruzione, alla
deriva.
Deriva provinciale
, perché altrove, ad esempio nei famigeratissimi Stati Uniti, il
latino spopola e si studia più che in Italia. Nemo propheta in patria.
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