di Alessandro Rico
Il 2 giugno di settant’anni fa, il primo referendum a suffragio universale sanciva la fine della monarchia e la nascita della Repubblica Italiana. Anche questo episodio che all’apparenza è ormai parte della memoria nazionale condivisa, in realtà conserva le sue ombre, dai presunti brogli alla sostanziale spaccatura del Paese in un nord repubblicano e un sud monarchico. Ma quel che davvero preoccupa è la condizione di questa Repubblica che, se paragonata a Francia o Stati Uniti è relativamente giovane, eppure è sembrata da subito vecchia.
Non si tratta solo di forme di governo: gli ideali repubblicani avevano pure un nobile lignaggio, anche se soprattutto tra i non cattolici. La questione che più pesa, a settant’anni da quel 2 giugno 1946, è soprattutto il destino della carta costituzionale, che della Repubblica definisce l’architettura istituzionale, la distribuzione dei poteri e delle competenze. Diciamoci la verità: come la Repubblica, la Costituzione è nata vecchia – anzi, forse proprio la sclerosi costituzionale ha consegnato la Repubblica a una senescenza precoce. Di riforma si parla da decenni, qualche volta si è provato a realizzarla, con esisti disastrosi: dall’introduzione delle regioni, che ad oggi rappresentano la peggiore fucina di latrocini politici, al federalismo farlocco che ha aumentato le tasse, al tentativo di Berlusconi bocciato dal voto popolare nel 2006. Renzi ora parte probabilmente con un’inerzia favorevole, ma proprio il suo relativo successo, facilitato pure dall’insulsaggine delle opposizioni (quando non dalla loro malcelata connivenza), rischia di regalarci la peggiore riforma della Costituzione che potessimo immaginare. Una riforma che minaccia di trasformare la scricchiolante Repubblica democratica in una Repubblica carismatica.
La Costituzione è già negletta in alcuni dei suoi principi fondamentali: nel silenzio assordante del Capo dello Stato della Suprema Corte, che anzi, da tempo spinge in questa direzione, il governo Renzi è riuscito nel capolavoro di brutalizzare l’articolo 29 («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio») con le unioni civili – senza per questo dimenticare che l’incapacità della classe politica a gestire la recessione economica aveva già inferto profonde ferite all’istituzione familiare. Se ciò non bastasse, ora Renzi si appresta a sfornare un Senato di lacchè nominati, organi di controllo subordinati all’esecutivo, una partecipazione popolare ai processi decisionali (che dovrebbe costituire proprio il nocciolo dell’idea repubblicana) fortemente limitata, ormai affidata solo alla corrispondenza carismatica tra “popolo” e leader, nonché una legge elettorale, che della riforma costituzionale è necessario complemento, che farà di ciò che rimarrà del Parlamento un feudo renziano. Altro che ebetino. Il Presidente del Consiglio e il suo fido alfiere Maria Elena Boschi sono dei veri furbacchioni, campioni di realismo cui non fa difetto una cinica attitudine: dire e disdire, fare e disfare. Come nel caso dei marò: Renzi è riuscito a riportare in patria anche Salvatore Girone, al prezzo dell’obbligo di firma quotidiano basato su un’accusa che in quattro anni nessuno ha mai formalizzato, ossia in violazione del principio pressoché universale dell’habeas corpus e del diritto penale italiano (e ciò non ha impedito all’India di inserire Finmeccanica nella lista nera delle sue commesse pubbliche).
Non posso non confessare un certo imbarazzo nel trovarmi a ripetere il ritornello che, nel corso degli anni, le cariatidi delle stantie istituzioni italiane, da Norberto Bobbio a Gustavo Zagrebelski, passando per Umberto Eco, Eugenio Scalfari e Stefano Rodotà, hanno biecamente agitato contro Berlusconi: «Siamo a rischio regime». Ma stavolta è vero: siamo a rischio regime. Un regime certamente lontano dai totalitarismi, che mobilitavano masse oggi ampiamente spoliticizzate, ma diverso pure dagli autoritarismi che tornano a farsi largo nello scacchiere internazionale, come Russia e Turchia. Sarà un regime all’italiana, fatto di leccapiedi, giornalai e intellettuali pubblici prostrati, il già traballante equilibrio dei poteri alterato in favore dell’esecutivo, mentre l’un tempo temibile magistratura e le altre vecchie concrezioni di interessi di casta verranno costrette ad accontentarsi delle briciole, qualche pensione d’oro o cooptazione tra le nuove gerarchie, come è già avvenuto ai tanti politici che anziché rottamare, Renzi ha riciclato. Lui, abile e spregiudicato come il giovane Mussolini.
Insomma, a settant’anni dalla nascita della Repubblica, la rivelazione di Scalfari, ironia della sorte, fondatore del giornale La Repubblica, che ha però confessato di aver votato per la monarchia, conferma soltanto che nel nostro Paese, in tutte le circostanze, è sempre valido l’adagio di Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Pubblicato il 02 giugno 2016
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