24 giugno 2013

Il giudice e l'eretico: una storia dell'Inquisizione romana

di Riccardo Zenobi

Per mettere a tacere il cattolico che, nonostante tutto, continua ad avere idee non allineate all’ideologia liberal del momento, c’è un modo infallibile: tirare fuori la storia passata – fittizia - della Chiesa cattolica. Non bisogna nemmeno citare fonti storiche, tanto si ha la fiducia di una gran parte della popolazione (soprattutto di quelli che guardano la fiction “i Borgia”) che prenderà sulla parola tutto quanto direte. Il libro che recensisco in questo post è stato scritto da uno storico italo americano, John Tedeschi, il quale ha affrontato uno dei temi tanto cari all’anticlericalismo d’accatto cui in Italia (e anche altrove) siamo ben abituati: l’Inquisizione romana.

Siamo però meno abituati a parlare in maniera scientifica dell’argomento, il quale nella bocca dei soliti noti serve solo a scatenare una reazione emotiva. Questo libro, fonti storiche alla mano, fornisce invece un’immagine dell’Inquisizione molto diversa da quella cui siamo abituati; l’autore è ben conscio del fatto che un libro di divulgazione, rivolto al grande pubblico, ha contro di sé una mole enorme di pregiudizi sedimentati da secoli, e non è un caso che su 458 pagine totali ben 60 sono di bibliografia, mentre le note degli undici capitoli ne occupano addirittura 170 in “fondo” al libro; tutto ciò per mostrare al lettore che quanto è venuto fuori dagli studi dell’autore e di altri studiosi ha precisi riferimenti nelle fonti a nostra disposizione.

Prima di passare ad alcuni temi toccati nel volume (poiché sarebbe troppo lungo riassumerli tutti, anche solo per sommi capi), faccio notare che l’autore non ha alcun intento di giustificare l’istituzione dell’Inquisizione in sé, anzi più volte nel libro è costretto a puntualizzare il suo punto di vista: l’Inquisizione si mosse entro i paletti giuridici vigenti nel periodo in cui agì, e sebbene, come in tutte le istituzioni, ci sono stati degli abusi, essa era del tutto coerente con le leggi del periodo, anche se per l’autore non era moralmente legittimata ad agire.

Ampie parti del libro riportano citazioni di scambi epistolari tra gli inquisitori e i cardinali della congregazione romana, i quali avevano una corrispondenza molto fitta, poiché l’inquisitore era tenuto a dare conto di tutto ciò che faceva, di ogni sua azione, spostamento e spesa, comprese quelle d’ufficio. L’inquisitore, oltre a rispondere al vescovo del luogo in cui operava, era anche soggetto alle normali incombenze degli ordini a cui apparteneva (domenicano o francescano): non aveva quindi il potere assoluto che viene descritto in alcuni film, era anzi gravato anche dall’obbligo di cercare la sistemazione delle persone arrestate, le quali erano spesso poste in custodia cautelare all’interno del convento in cui alloggiava l’inquisitore. Spesso si creavano dei conflitti tra le varie autorità, cosa che non rendeva tale lavoro molto appetito, dato che bisognava ricorrere, per dirimerli, a Roma. 

Il processo inquisitoriale era minuziosamente trascritto, alla presenza di un notaio, il quale peraltro era uno dei pochissimi ad avere l’autorizzazione ad assistere all’eventuale ricorso alla tortura, dovendo trascrivere anche i gemiti, oltre alle altre parole. Trovare un notaio disposto a lavorare con l’inquisitore era spesso un problema, ma senza di esso non si poteva procedere all’interrogatorio o al processo, tantomeno alla tortura, la quale non consisteva in pratiche sadomasochistiche, ma nel tratto di corda: al processato del quale si aveva il fondato dubbio che nascondesse parte della verità venivano legate le mani dietro la schiena, e poi veniva sospeso in aria per un tempo non superiore ai 30 minuti o, in rarissimi casi, un’ora. La cosa che ha colpito molto l’autore del libro è la quantità di persone che in balìa di questa tortura proferiva una qualche confessione: l’1% del totale, tanto che si è pensato che molti di essi ricorressero a qualche sostanza con proprietà analgesiche. Dalla tortura di qualsiasi tipo erano escluse alcune categorie di persone, come le donne incinte, o gli infermi. 

Tra le statistiche riportate nel libro si evince che nella città di Roma furono giustiziate 97 persone in circa 300 anni di attività dell’Inquisizione (uno di questi, manco a dirlo, era Giordano Bruno), un dato tratto dagli archivi delle confraternite che accompagnavano i condannati al supplizio. Di quali casi si occupava l’Inquisizione? Variavano da zona a zona. In Sicilia, territorio di pertinenza dell’Inquisizione spagnola, le accuse più numerose erano quelle di “islamismo” (471 casi tra il 1560 e il 1615, 261 fino al 1700), seguite da “proposiciones” (quelle che chiameremmo vilipendio alla religione), superstizione e bigamia (quest’ultima in aumento nel 1600 rispetto al 1500); a Napoli si sono registrate 1127 accuse di uso di magia dal 1564 al 1740, seguite da bigamia e falsa testimonianza, cifre simili si registrano anche nel resto della penisola (Roma, Friuli e Venezia). Va notato che quello riportato non è il numero delle condanne, ma dei processi, di cui una infima minoranza riguardava più persone. Le persone che utilizzavano maggiormente la magia erano, strano a dirsi, prostitute, che volevano attirare più clienti.

Un’ultima parola vorrei spenderla sulla “caccia alle streghe”: l’autore nota come gli inquisitori non credessero all’effettiva esistenza della magia, e a sostegno di tale tesi porta il fatto che nella Firenze del XVII secolo il potere secolare ebbe a lamentarsene in più occasioni. Incredibilmente (ma solo per noi) erano le autorità civili quelle che spesso credevano di più alla stregoneria. Ci sarebbero moltissimi altri temi toccati dal libro, come l’indice dei libri proibiti, le pene inflitte ai diversi condannati, i manuali in uso presso gli inquisitori (no, tra di essi non c’era il Malleus maleficarum, il quale è nato in area tedesca alla fine del 1400), ma lascio al lettore interessato lo scoprirli, per vedere come l’Inquisizione sia stata assai differente dal tunnel degli orrori che viene descritto, ad esempio, in un film di Milos Forman.

J. Tedeschi, Il giudice e l'eretico. Studi sull'inquisizione romana, Milano, Vita e Pensiero, 1997 
 

12 commenti :

  1. John Tedeschi è quell'imbelle cretino statunitense che sostiene che la parola dell'italiano secentesco "abbruciare" voleva dire "abiurare". Annamo bbene.

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    1. Ahahhahah, 11 inch di ignoranza, che figura!!!

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  2. http://books.google.it/books?id=29eSBdfQ7AcC&pg=PA236&lpg=PA236&dq=abbruciare+inquisizione&source=bl&ots=tvUMkZ-Hay&sig=AdbQ82z_M0Jxlr54Qoa4UiPqWrc&hl=it&sa=X&ei=tF7IUYzaJ4qN4ASDwICIDg&ved=0CDEQ6AEwAA#v=onepage&q=abbruciare%20inquisizione&f=false

    No, vada pagina 236. Il cretino è un altro, si informi.

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    1. Veramente, se legge bene, il libro da lei presentato dice che "certezze preconcette [...] facevano leggere [...] il termine 'abbruciare' dove il documento recava la parola 'abiurare'".

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    2. Uff! Quanto è odioso dover spiegare l'ovvio quando basterebbe solo leggere con un pochino di attenzione.

      Paul11inch scrive che Tedeschi sosterrebbe che "abbruciare", nell'italiano secentesco, significasse "abiurare".

      Sostiene Tedeschi una cosa del genere? No.

      Cosa dice Tedeschi? Tedeschi dice che un altro storico, Stefano Davari, avesse un pregiudizio negativo verso l'inquisizione.

      Da cosa Tedeschi deduce che Davari non fosse uno storico obiettivo? Dal fatto che mentre un documento riportava scritto "abiurare", Davari leggeva invece "abbruciare".

      Ovvero Davari diceva che l'eretico fosse stato "abbruciato", mentre il documento riportava che l'eretico avesse "abiurato".

      Ergo Paul11inch ha completamente torto, ed il libro di Tedeschi non lo ha mai neanche aperto.

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    3. Nel testo originale di Davari "Cenni storici intorno al Tribunale dell'Inquisizione in Mantova" è riportato correttamente "abiurare". Tedeschi si è confuso oppure mente.

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    4. In quale edizione? Forse da qualche parte lo hanno corretto.

      Questa comunque è la nota di Tedeschi:

      «L'errore di lettura è in S. Davari, Cenni storici intorno al tribunale dell'Inquisizione in Mantova, ASL (Archivio Storico Lombardo), 6 (1879), pp. 547-565, 773-800, a p. 790, ed è stato rilevato da L. von Pastor, The History of the Popes from the Close of the Middle Ages, 40 voll, St. Louis 1898-1953, vol. 17, p. 322. E. Verga è l'autore successivo che ha perpetuato l'errore di Davari. Cfr. il suo Il municipio di Milano e l'Inquisizione di Spagna, 1563, ASL, s. 3, 8 (1897), pp. 86-127, a p. 88.»

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    5. Ok, ecco la prova.

      Purtroppo la visualizzazione è limitata, ma comunque su google books si può vedere chiaramente che, esattamente a pagina 790 del volume dell'ASL citato da Tedeschi, c'è proprio scritto: «I frati di S. Domenico dopo vespro fanno abbruciare dieci di questi loro pregioni...» Quindi Tedeschi non mente né si è sbagliato. La sua citazione è corretta.

      http://books.google.it/books?ei=iJfRUaTBNeO64AS454HADw&hl=it&id=DD0FAAAAQAAJ&dq=archivio+storico+lombardo&q=abbruciare#search_anchor

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  3. la migliore storia dell'inquisizione e' comunque la monumentale opera di padre pietro tamburini

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  4. "cosa che ha colpito molto l’autore del libro è la quantità di persone che in balìa di questa tortura proferiva una qualche confessione: l’1% del totale, tanto che si è pensato che molti di essi ricorressero a qualche sostanza con proprietà analgesiche"

    oppure, banalmente, non avevano nulla da confessare.

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  5. Voglio cogliere l'occasione di segnalare questo libro sul palazzo del inquisitore a Malta. http://heritagemalta.wordpress.com/2013/06/20/the-inquisitors-palace-an-architectural-gem-spanning-centuries-and-styles/

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