Il sole abbraccia la
piazza, gremita ma non troppo. Non è un’adunata oceanica a salutare il Papa
nella mattina della sua ultima udienza, ma un clima familiare, quasi intimo,
creatosi nonostante le bandiere nazionali che fanno capolino accanto ai tanti
striscioni e cartelli dedicati al Santo Padre siano numerosissime (colpisce lo
sguardo lo scarlatto della bandiera cinese, e mi toccano il cuore i vessilli
libanese ed indiano che mi sembrano portare in piazza, oltre all’amore della
Chiesa vivente, il sangue di tanta Chiesa martire anche in questi giorni).
Lungo il tragitto sulla
Papamobile che fende la folla, porgono a Benedetto un neonato. Non lo vedo coi
miei occhi, lo vedrò la mattina dopo grazie alla foto di un’amica blogger, e anche se non è la prima
immagine del genere, mi sembra renda in maniera eccellente il saluto ad una
paternità spirituale ed umana che ci rammenta visibilmente, ogni giorno, di essere
un’unica famiglia, un unico popolo, un unico Corpo: dice il Papa qualche minuto
più tardi, “il mio animo si allarga per abbracciare tutta la Chiesa sparsa nel
mondo; e rendo grazie a Dio per le notizie che in questi anni del ministero
petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della
carità che circola nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore”.
L’emozione grande di
essere, anche fisicamente, testimoni di un momento in ogni accezione “storico”
fa sì che durante l’allocuzione del Santo Padre ciascuno ripercorra, con la
memoria, i quasi otto anni – sono volati – in cui abbiamo ricevuto la Grazia di
questo pontificato. Otto anni ripercorsi in mezz’ora, perché il tempo umano non
è quello divino: “sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è
quello di Dio”.
La dolce serenità della
voce, dei gesti, del volto di Benedetto è struggente. Sembra volerci
tranquillizzare, come un padre; le sue parole si soffermano spesso sui concetti
di “fiducia” e di “gioia”: “ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore
e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua
e non la lascia affondare; è Lui che la conduce… Questa è stata ed è una
certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è
colmo di ringraziamento a Dio”, “vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere
cristiano… Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso,
che nessuno ci può togliere!”, “nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi,
ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci
abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore”. Proprio come un padre,
ci rammenta la preghiera del mattino che abbiamo appreso da bambini (il “ti
adoro”).
Il Papa poi ringrazia
chi l’ha affiancato e sostenuto in questi anni: “non mi sono mai sentito solo
nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo
accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno
aiutato e mi sono state vicine”. Eppure non possiamo fare a meno, mentre lo
dice, di pensare a quante volte abbiamo guardato a lui con indifferenza o
condiscendenza, abbiamo consentito si infangassero la sua parola e la sua
persona, abbiamo ceduto al politicamente corretto invece che difendere il
successore di Pietro; a quante volte la nostra preghiera – troppo presa dalle
nostre richieste e dalle nostre angosce – l’ha trascurato, il suo Magistero è
stato frettolosamente liquidato se non frainteso. Eppure, egli ci ringrazia.
Il coinvolgimento, non
solo emotivo, mi rende difficile, ammetto, persino applaudire durante le pause
che costellano il discorso di Benedetto. Una parte di me fatica a
“perdonargli”, per così dire, di privarmi della sua immagine che amo tanto,
stupenda nella sua fragilità, sempre più splendente della luce di Cristo, man
mano che il suo fisico si consuma e si fa etereo. Vorrei correre ad
abbracciarlo, mentre le sue parole assumono accenti di genitorialità autentica
e commovente: “ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con
quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo
di Roma”, “il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il
mondo, e si sente al sicuro nell’abbraccio della loro comunione; perché non
appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui”.
Vorrei chiedergli di
insegnarmi il suo coraggio, mentre pronuncia una frase che mi dà le vertigini:
“[il Papa] appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua
vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto
sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio
quando la dona… Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un
ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del
ministero, non revoca questo… Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo
presso il Signore Crocifisso”. La commozione del momento m’impedisce di
cogliere tutta la profondità di simili parole, la colgo solo ripercorrendole
più tardi.
Ed infine, come dalla
Croce Cristo affida Giovanni a Maria, e come un padre mette un piccolo tra le
braccia della sua mamma, perché ne consoli il pianto, Benedetto ci consegna
alla Madre Corredentrice, perché ci dia forza e fiducia: al suo conclusivo,
meraviglioso “grazie” fa eco il nostro lungo applauso. È così bello sentirci
Chiesa così, stretti attorno al Pontefice, che nel mio cuore sulla malinconia
alla fine è proprio la gioia a prevalere. La gratitudine per quanto mi hai
fatto capire in questi anni, Santità, è troppo grande; la bellezza dell’essere
di Cristo, che è risaltata in ogni tuo atto e ogni tuo motto, è troppo luminosa
perché la mia debolezza umana possa prevalere. E nonostante tutta
l’ingratitudine che ha ripagato il tuo spenderti per noi, tu ci ringrazi; e
nonostante tanto orribile male sia stato detto di te, tu sei Bene-detto.
Grazie, papà!
Pubblicato il 01 marzo 2013
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