
Siamo stati spesso abituati a sentire che “nulla può viaggiare più veloce della luce”. E’ il principio di località, fondamentale per la fisica da quando Albert Einstein formulò la teoria della relatività ristretta, nel 1905. Esso pone un limite a tutte le velocità. Se venisse violato tale postulato, ne andrebbe addirittura del principio di causa-effetto, quella che Aristotele chiamava causa efficiente, ciò che “mette in moto la materia”: effetti e cause si troverebbero mischiati nell'arena dello spazio-tempo.
C’è un caso,
tuttavia, in cui sembra che il principio di causalità cui la fisica ci ha
abituato debba essere riformulato, o per lo meno ampliato. Per renderci conto della questione,
dobbiamo addentrarci qualche istante nella questione principale concernente la
teoria denominata meccanica quantistica, dall'epoca della sua “fondazione” ad
oggi: l’interpretazione stessa della teoria. In meccanica quantistica,
ogni sistema (ad esempio, un elettrone) è definito da una grandezza chiamata
stato quantico, o funzione d’onda. Questa funzione (per sistemi semplici molto
simile alle funzioni che si studiano al liceo, tranne per il fatto di essere a
variabile complessa) caratterizza il sistema, e si evolve nel tempo secondo
un’equazione simile a quelle della dinamica di Newton, espressa in un
particolare formalismo e denominata nei casi semplici equazione di Schrödinger. Tale equazione è completamente
deterministica, non fosse che le sue soluzioni (funzioni d’onda) sono quasi sempre più di una (sovente addirittura
infinite). Ciò che rende univoca la natura (ad esempio, dell’elettrone) è
l’atto della misura, o dell’osservazione, che costringe la funzione ad
assumere una forma ben definita (in gergo “la misura fa collassare la
funzione”), scelta fra il ventaglio delle soluzioni di cui sopra, secondo
indici probabilistici.
Sin dall'epoca della sua
formulazione, fisici teorici e sperimentali si trovarono di fronte al rompicapo
dell’interpretazione di questo fenomeno, ed in generale del rapporto fra realtà
e meccanica quantistica. Tre le scuole dominanti: quella ortodossa,
secondo cui è l’atto stesso della misura a “creare” la proprietà del sistema
misurata, col limite statistico accennato prima; quella realista, secondo cui il sistema fisico “aveva realmente”
l’attributo prima della misura (e dunque la meccanica quantistica è una teoria
abbondantemente incompleta); e quella agnostica,
tipica di chi preferisce relegare queste questioni alla metafisica.
Per sostenere la propria tesi, quella
realista, Einstein et al. pubblicarono un articolo contenente il paradosso EPR (dal nome degli autori [1]).
Semplificando, consideriamo una particella chiamata mesone π0, o
pione neutro, che decade emettendo un elettrone e- e un positrone e+
(queste ultime sono particelle identiche, a parte il fatto che han carica
opposta). Tutte le particelle hanno una proprietà, denominata “spin”, che è una specie di momento
intrinseco della particella (un misto fra un momento magnetico e uno angolare,
come una calamita che gira come una trottola). In particolare, elettrone e
positrone sono fermioni, ovvero particelle con spin semi-intero che soggiacciono ad una particolare statistica, la
quale impedisce loro di occupare il medesimo stato quantico (in altre parole,
di avere il medesimo spin, a parità
di energia e delle altre proprietà). Il pione ha spin 0, per cui elettrone e positrone devono avere spin anti-paralleli: uno positivo (up)
ed uno negativo (down), della medesima grandezza (tecnicamente, configurazione di singoletto).
Supponiamo che il pione si scinda, e che i prodotti del decadimento viaggino in
linea di principio a distanze di anni luce, e vengano misurati. Se si trova che
l’elettrone ha lo spin “up”, il
positrone deve avere spin “down”, e
viceversa (lo stato è inesorabilmente legato, entangled). E questo avviene istantaneamente. Se uno misura così,
l’altro, abbia misurato o meno, troverà cosà. Per il realista, nulla di
sorprendente: l’elettrone aveva realmente spin
“up”, fin dal momento in cui erano stati prodotti dal decadimento, solo che la
meccanica quantistica non lo sapeva. Il punto di vista “ortodosso” è invece più
problematico: sostiene che nessuna delle due particelle aveva spin “up” o “down” fino a quando non c’è
stato l’atto della misura; è stata la nostra misura a far collassare la
funzione d’onda, “producendo” istantaneamente lo spin del positrone ad anni luce (esperimento mentale) di distanza.
Einstein considerava assurdo un qualunque tipo di “azione fantasma a distanza”,
concludendo che la posizione ortodossa non fosse sostenibile. L’assunto
fondamentale è quello citato all'inizio dell’articolo, il principio di
località, secondo cui nessun tipo di influsso può propagarsi più rapidamente
della velocità della luce [2].
Il vero colpo per la comunità scientifica non fu tanto la sconfitta del realismo, quanto la prova che la Natura in sé è fondamentalmente non locale. La funzione d’onda collassa istantaneamente… Significa che, in qualche modo, nel sistema sopra descritto -e, in fondo, in tutti i sistemi di corpi in Natura, essendo tutti correlati, nel senso dell’ “entanglement” quantistico- i singoli componenti “sanno” che devono comportarsi come un sistema, ovvero il sistema non è scindibile (riducibile) nella somma delle sue parti. E’ un concetto anti-riduzionista che presenta alcune somiglianze col concetto aristotelico di causa finale: è come se il sistema fosse stato “programmato” una volta e “sappia” come comportarsi. Attenzione, non ne va della causalità comunemente intesa, né i viaggi a ritroso nel tempo sono così a portata di mano: nell'esperimento di cui sopra, infatti, non viene trasmessa informazione fra i due misuratori. Colui che misura lo spin dell’elettrone non ha modo di informare chi misura l’altro spin su che cosa otterrà, a meno che non usi segnali che viaggiano al massimo alla velocità della luce: il secondo misuratore permane nell'ignoranza finché non misura il suo positrone o finché non riceve dall'altro un segnale contenente informazione. Il segnale di informazione è causale nel senso deterministico, non così quello intrinseco della funzione d’onda. Il fascino della non località ha coinvolto anche Roger Penrose, che abbozza addirittura una teoria basata su di essa per cercare di spiegare processi estremamente complessi come la formazione della coscienza [7]. Avremo modo di parlarne. Il teorema di Bell tuttavia è meno velleitario, ma ad ogni modo ci suggerisce, come spesso si sente dire, che la realtà a volte può essere più stupefacente della fantasia, e che forse Dio è ben più di un orologiaio…
Riferimenti
[1] A. Einstein, B. Podolsky, N. Rosen, Phys. Rev. 47,
77 (1935)
[2] D. Griffiths, Introduction to quantum mechanics,
p. 429 (2005)
[3] D. Bohm, Phys. Rev. 85, 166 (1952)
[4] J. S. Bell, Phys. Rev. 1, 195 (1964)
[5] D. Griffiths, op. cit., p. 430 e sgg.
[6] A. Aspect, P. Grangier, G. Roger, Phys. Rev. 49,
91 (1982)
[7] R. Penrose, The Emperor’s new mind (1989)
Pubblicato il 21 ottobre 2012
Il principio di località richiede che nessuna informazione viaggi più veloce della luce e l'entanglement quantistico non permette in alcun modo la trasmissione di informazione. Esistono un sacco di cose che possono viaggiare più veloce della luce e non trasportano informazioni. L'esempio più lampante è quello delle forbici relativistiche, in cui le lame di un grosso paio di forbici vengono spinte l'una contro l'altra a velocità sub-luce, ma il punto ove avviene il taglio si muove a velocità superluminale. Dal momento che tale punto non è un oggetto fisico, ma una costruzione geometrica introdotta da noi, nulla gli vieta di spostarsi più veloce della luce. Le funzioni d'onda non differiscono di molto da tale costruzione geometrica: sono entità matematiche da noi introdotte per descrivere il comportamento del sistema, mentre l'unica vera entità fisica in gioco sono le misure eseguite su di esso che, appunto, non trasportano informazione a velocità superluminale. Con gli esperimenti ispirati alle disuguaglianze di Bell il problema è, in realtà, già stato ampiamente risolto: la cosa stupefacente (ed affascinante) è il fatto che la soluzione consistesse non nel modificare la teoria, ma nell'accorgersi che il problema non sussisteva.
RispondiEliminaAnzitutto il Gedankenexperiment è ben lungi dall'esser stato effettuato, o dall'esser effettuabile, laddove invece la funzione d'onda, o meglio il suo modulo quadro, è una grandezza misurabile, e non è quindi un mero oggetto matematico avulso dal reale. Ancor di più, anche la fase della funzione di stato è fondamentale in teorie di gauge come l'elettrodinamica (U(1)). Altrimenti, anche il fotone potrebbe essere considerato (ed era considerato da Planck stesso) un mero artificio matematico. Scorrendo l'articolo, si vede come da nessuna parte è scritto che l'informazione viaggi più veloce della luce. Esplicativo in tal senso è il titolo originale dell'articolo, modificato senza autorizzazione: "Il teorema di Bell e la causa finale della Natura", che sottolinea la validità della "categoria" aristotelica della causa finale, affiancata all'unica che il positivismo considera(va) possibile, quella efficiente o deterministica. Ovvero, la Natura è intrinsecamente non locale, come sostenuto da quasi tutti i fisici. Questa la "soluzione" del problema. Con tutte le implicazioni che poi possono essere interessanti per un credente.
RispondiEliminaNon dico che l'articolo sia errato (anzi, è molto più accurato di gran parte del materiale presente sul web), tuttavia è incompleto. Il gedankenexperiment proposto non è stato effettuato, ma suoi equivalenti vengono eseguiti di continuo. Prendiamo un double mu event all'LHC: dal centro di interazione si diparte uno Z che decade in due muoni. I muoni sono ciascuno in una sovrapposizione di stati con impulsi differenti, tuttavia la loro funzione d'onda complessiva ha una massa a riposo ben definita. Scegliendo eventi con pseudorapidità elevata si può far sì che la distanza tra il punto di rilevazione dell'uno e dell'altro sia superiore al tempo di misurazione (riferendoci a CMS: prendiamo \eta > 3.1, la distanza tra i detector è 66ns, il tempo di volo nel detector circa 10ns).
RispondiElimina"La funzione d'onda [...] è una grandezza misurabile" ... ni. Quello che possiamo misurare è, data una disponibilità grande a piacere di particelle che riteniamo per qualche ragione trovarsi nello stesso stato, la probabilità che, a seguito di una misura di posizione, una di esse si trovi in una determinata regione di spazio. Nella nostra interpretazione, noi associamo tale probabilità al quadrato della funzione d'onda. Se abbiamo una sola particella, invece, non c'è modo di misurarne la funzione d'onda.
Il problema di fondo in queste considerazioni è un approccio fuorviante. Mentre per la meccanica classica è abbastanza immediato ricondurre ogni singolo elemento del modello matematico ad un'entità fisica tanto da poterli tranquillamente confondere, quando si considera la fisica del '900 è fondamentale distinguere nettamente tra evidenza sperimentale e costruzione matematica. Quello che abbiamo in mano in laboratorio sono macchine che producono stati e rilevatori che eseguono delle misure su questi stati. Per analogia con la meccanica classica noi siamo portati ad immaginare che debba esistere un determinato ente che porta determinate caratteristiche dategli dal generatore e che viaggiando le trasmette all'apparato di misura. Il vero salto in avanti rispetto alla meccanica classica si ottiene nel momento in cui l'operazione di misura muta inesorabilmente la natura dello stato che stiamo esaminando. In meccanica classica ha perfettamente senso chiedersi che cosa viaggi dalla pistola al bersaglio, poiché è possibile fotografare tale oggetto, misurarlo ed analizzarlo senza mutare la natura del sistema somplessivo. In meccanica quantistica chiedersi che cosa viaggi tra la macchina che genera uno stato e quella che esegue una determinata misura su tale stato è, invece, una domanda priva di significato.
[Continua]
RispondiEliminaCiò detto, la funzione d'onda è un oggetto matematico le cui proprietà possono venire ricondotte in maniera abbastanza semplice alle caratteristiche di generatori e a quelle degli apparati di misura. Allo stesso modo in meccanica classica le coordinate di un oggetto macroscopico ben descrivono la sua collocazione traslazionale nello spazio e posso essere fondamentali per chi volesse eseguire calcoli relativi a tale oggetto. Tali coordinate, però, non hanno nulla a che vedere con l'oggetto in questione: il fatto che la sua posizione sia descritta da una determinata terna di numeri è un'artificio che abbiamo introdotto noi. Qualunque altra terna di numeri, infatti, potrebbe descriverne la posizione, a patto di scegliere opportunamente l'origine degli assi. Questo non toglie che le coordinate di un oggetto non possano venire misurate.
Ora, la proprietà di non essere locale pertiene alle funzioni d'onda, ma inferirla anche rispetto ai fenomeni fisici che da esse vengono descritti è un lungo passo. Già in meccanica classica la trasposizione di caratteristiche degli enti matematici ai sistemi fisici crea problemi: prendiamo uno spazio isotropo e dotiamolo di un sistema di coordinate. Il sistema di coordinate spezza la simmetria dello spazio isotropo e ci permette di identificare un ottante privilegiato: quello in cui tutte le coordinate sono positive. Tale rottura di simmetria pertiene, però, non al sistema fisico, bensì all'oggetto matematico che utilizziamo per descriverlo. Mentre in meccanica classica questi esempi sono sufficientemente vicini all'esperienza quotidiana da sembrare financo banali, la minore familiarità con le dinamiche della quantistica (ma anche della relatività, per non parlare della QFT) è fortissima fonte di abbagli.
Quello che non mi è chiaro dall'articolo è come si inferisca dalla non località della funzione d'onda la non località dei fenomeni fisici che essa sottende. La mia impressione studiando la fisica moderna, è, invece, che una corretta formulazione del principio di località stia alla base di tutto quanto è stato fatto dagli anni '60 ad oggi.
Risolto il problema del titolo, e ora ricordo perché l'ho cambiato (non riuscivo a togliere quello spazio lunghissimo tra titolo e testo :D )
RispondiEliminaSu alcuni punti fondamentali non concordo, il più importante dei quali è il fatto che la funzione d’onda, in modulo e fase, sia una realtà fisica, e non un abitante dell’iperuranio matematico. Ne è più che parziale dimostrazione la ricerca sperimentale che ha fruttato proprio quest’anno il Nobel per la Fisica ad Haroche e Wineland: il primo, ad esempio, grossolanamente parlando è stato in grado di “isolare” singoli fotoni fra specchi ultrariflettenti, permettendo alla particella di sopravvivere per frazioni di secondo, ed inviando nel sistema un atomo di Rydberg è stato in grado di ricavare informazioni sulla fase dello stato quantico dell’atomo attraverso lo studio dell’interazione fra quest’ultimo e il fotone. L’esperimento di Wineland invece ha riguardato lo studio non distruttivo dei sistemi entangled [trasmissione di sovrapposizioni di stato fra ioni; maggiori dettagli in http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/2012/advanced-physicsprize2012.pdf]. Detto ciò, ma lo dice pure il Griffiths nel recente manuale accademico citato nell’articolo, l’ontologia realista di Einstein non può sussistere, e se vogliamo restare nella scienza e non nella fantascienza (es. dell’ipotesi dei molti mondi) l’unica interpretazione consistente è quella “ortodossa”, che afferma la non-località della Natura. Non si intende naturalmente che l’informazione causale si propaga a velocità superluminale, ma che esiste un altro tipo di “influsso” oltre a quello causale, denominiamolo “etereo” se vogliamo o, come l’ho definito nel titolo, “finale”. Il Griffiths stesso afferma che “siamo quindi portati a distinguere fra due diversi tipi di influssi: quello “causale”, che produce cambiamenti in chi lo riceve (concetto di causalità deterministica), e quello “etereo”, che non trasposta energia, l’evidenza del quale sta nella correlazione tra dati presi sui due sottoinsiemi separati – una correlazione che per sua natura non può essere rilevata dall’esame di una sola delle due “liste”” [op.cit., pag 435]
RispondiEliminaPer quanto riguarda infine la questione dei sistemi di coordinate, essa a mio avviso non ha molto luogo di esistere, se ho colto bene il problema (più generale della fisica quantistica, alla base della relazione matematica-fisica). Un qualsiasi sistema di coordinate presenta il problema di esser proprio quel sistema di coordinate, ma di volta in volta si sceglie il sistema che è più comodo per la descrizione dell’oggetto (per ovviare a ciò in GR si usano quantità tensoriali indipendenti dal sistema di coordinate). Ma ciò non significa che la quantità matematicamente descritta da quelle coordinate, come ad esempio una palla, non sia effettivamente una palla. Si può sempre parametrizzare una curva in qualsiasi dimensione (anche complessa), ma ciò non toglie che l’oggetto da essa descritto non sia reale.
[il commento qui sopra è dell'autore dell'articolo]
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