31 ottobre 2012

Gli splendidi 500 anni della Cappella Sistina

di Viviana Ardemagni



“L'arte unisce i popoli, la religione li divide” è un detto che ricorre spesso nel pensiero comune riguardo all'atteggiamento della Chiesa, ma è proprio così? L'arte, che si parli di pittura, scultura, architettura, musica e poesia, ha sempre avuto la caratteristica di essere universale e di comunicare all'uomo trasmettendo valori, ideali e storia; ma da che cosa è supportata?

Al giorno d'oggi si fatica a capire cosa gli artisti contemporanei vogliano dire, cosa vogliano rappresentare e si tende a giustificare tale incomprensione con un luogo comune: “saprei farlo anch'io”. Allora, che cosa rende veramente universale l'arte? È il puro gesto tecnico o il pensiero che sta alla base della realizzazione? È solo l'abilità dei grandi maestri che ci intimorisce nel metterci a confronto con loro o c'è qualcos'altro? 

Oggi ricorre il quinto centenario dello svelamento di una delle più grandi opere artistiche della storia dell'arte, la volta della Cappella Sistina, affrescata da Michelangelo Buonarroti dal 1508 al 1512, su commissione dell'allora pontefice papa Giulio II della Rovere. L'opera michelangiolesca affascina da secoli i visitatori che accalcano i corridoi vaticani, rappresentando il concetto comune di opera d'arte, meglio della celeberrima Gioconda leonardesca, reputata dai più “troppo piccola”. Voluta da papa Sisto IV, da cui prese il nome, e dedicata a Maria Assunta in cielo, la cappella papale venne riedificata tra il 1475 e il 1481, inserita nel programma di recupero e monumentalizzazione del tessuto urbano di Roma, a seguito del decadimento e abbandono che caratterizzò la maggior parte dei monumenti romani durante il periodo della cattività avignonese. Distribuita su tre ordini, la decorazione della cappella prevedeva finti arazzi nell'ordine inferiore, realizzati successivamente da Raffaello; sul secondo ordine le Storie di Mosè e Aronne, sul lato sinistro, e le Storie di Gesù, sul lato destro, basando tale struttura iconografica sulle parole di Sant'Agostino: “Dio, ispiratore e autore dei libri dell'uno e dell'altro Testamento, ha sapientemente disposto che il nuovo fosse nascosto nell'antico e l'antico diventasse chiaro nel nuovo”; nel registro più alto erano rappresentati i pontefici martirizzati e, per finire, il soffitto, rispondeva al gusto tipico delle cappelle medievali, rappresentando un cielo stellato. 
La decisione di Giulio II di riaffrescare la volta fu vincolata a necessità di ristrutturazione dell'edificio: la natura del terreno causò l'inclinazione della parete meridionale della cappella, con la conseguente crepatura del soffitto. Si scelse di affidare la realizzazione della pittura murale a Michelangelo, che, nell'arco di quattro anni e quasi interamente da solo, portò a compimento la commissione papale. Ma non c'è da pensare che per il Buonarroti fu cosa facile; artista eccelso sin dalle opere giovanili, Michelangelo esprimeva al meglio le sue capacità in campo scultoreo, e fu proprio per questo amore nei confronti degli scalpelli e del marmo che nel 1505 accettò la commissione della realizzazione del monumento funebre di Giulio II, opera che avrebbe celebrato il suo nome nei secoli a venire. Il cambio di rotta dell'interesse del papa e il consequenziale accantonamento del progetto della tomba non furono viste di buon occhio da parte dell'artista che, rispettoso del committente, si cimentò nel campo, a detta sua, a lui poco consono. Non si trattava di realizzare nuovamente un cielo stellato, ma di creare un legame narrativo con le pitture murali delle pareti laterali; fu così che la volta venne divisa in tre ordini longitudinali: centralmente vennero rappresentate le storie della Genesi, contornate dalle figure dei Veggenti (sette profeti e cinque sibille), coloro che annunciarono anticipatamente la venuta di Cristo; al di sotto di essi, nelle vele e nelle lunette, sono raffigurati gli Antenati di Cristo; in conclusione, i quattro pennacchi laterali rappresentano alcune storie della salvezza, tratte dall'Antico Testamento.

Questo è ciò che noi tutt'ora vediamo, elogiando il genio di un artista che non reputava finita l'opera a cui stava lavorando; ironia della sorte e dell'arte di Michelangelo, che siamo soliti definire come “non finito”: l'incompletezza che fa percepire il modus operandi dell'artista, il cui compito era “cavare” dal materiale utilizzato l'essenza dell'opera. L'essenza contenuta in un'opera d'arte, sia essa scultura, pittura, poesia o musica equivale all'essenza dell'uomo; e sta proprio all'uomo indagare nel profondo di sé per ricercare la Verità. L'arte ha una funzione duplice: ci consente di entrare dentro di noi e al contempo di elevarci verso qualcosa che ci appartiene, ma che poco conosciamo. Finché sarà in grado di portare avanti questo dualismo, essa è destinata a perdurare nei secoli. La sua universalità è vincolata a qualcosa che appartiene a tutti gli uomini, e l'artista ha il compito di essere strumento per la ricerca dell'essenza.
Bernard Shaw scrisse: “si usano gli specchi per guardarsi il viso, si usa l'arte per guardarsi l'anima” ed è attraverso l'arte di Michelangelo che l'uomo può percorrere il viaggio che lo porterà alla scoperta della Verità.


 

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