di Marco Mancini
Generalmente non mi interesso dei casi di cronaca, specie di quella “nera”. Stavolta, però, faccio un’eccezione. Mi occupo del disastro della nave Concordia. Non per abbandonarmi alla solita retorica strappalacrime. Né per lamentarmi dell’incapacità del comandante Schettino, anche perché ormai sembra diventato impossibile dire “quest’uomo è un incapace” senza indulgere al moralistico chiacchiericcio di fondo e al solito rito del capro espiatorio.
Generalmente non mi interesso dei casi di cronaca, specie di quella “nera”. Stavolta, però, faccio un’eccezione. Mi occupo del disastro della nave Concordia. Non per abbandonarmi alla solita retorica strappalacrime. Né per lamentarmi dell’incapacità del comandante Schettino, anche perché ormai sembra diventato impossibile dire “quest’uomo è un incapace” senza indulgere al moralistico chiacchiericcio di fondo e al solito rito del capro espiatorio.
Entrambi i fronti, a mio avviso, non colgono il punto focale della questione. Esiste davvero qualcosa di sorprendente, in quella conversazione. Ma non ha niente a che vedere con il fatto che De Falco rappresenti la parte buona dell’Italia, o che abbia compiuto il suo dovere. E’ qualcosa che ci ha stupiti tutti, che ci ha persino (positivamente) turbati. Questo qualcosa si chiama Autorità. Quella di De Falco era la voce dell’autorità, una voce ferma e decisa, ma non sguaiata né arrogante. L’autorità è cosa diversa dal nudo potere. Essa non si impone semplicemente attraverso la coercizione o in virtù della forza di chi la esercita, ma possiede una sua forza intrinseca, richiamandosi a un ordine superiore di valori di cui chi la incarna è un mero rappresentante. Si tratta del pathos dell’autorità che, come scriveva Carl Schmitt in “Cattolicesimo romano e forma politica”, la Chiesa Cattolica possiede nella sua piena purezza. Dell’autorità che, in ultima analisi, trae la propria legittimazione dall’esistenza di una Verità. “Non est enim potestas nisi a Deo”, scrive san Paolo nell’Epistola ai Romani (Rm 13, 1).
Lo stesso nesso tra Verità e autorità è presente, a più riprese, nei Vangeli. Già all’inizio della predicazione di Gesù, gli ascoltatori rimangono “stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1, 22). Cristo parla con autorità, al contrario dei falsi profeti di ogni tempo. Ancora più simbolico è l’episodio del centurione romano, che viene a implorare la guarigione del suo servo. Egli non chiede che Gesù si scomodi nell’arrivare fino a casa sua: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (e peccato che la straordinaria valenza eucaristica di questa frase sia stata storpiata e occultata nella traduzione italiana del Messale). Infatti, dice il centurione, “anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va', ed egli va; e a un altro; Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa” (Mt 8, 8-9). In due righe, una spiegazione semplice, ma sublime, di ciò che è l’autorità, legata indissolubilmente alla Fede. Una spiegazione proveniente da un soldato, come il comandante De Falco.
Ecco, dunque, ciò che stupisce. Che nel tempo presente, in cui ha pienamente trionfato la battaglia moderna contro tale principio, in cui si è sviscerato in tutte le sue declinazioni il “vietato vietare”, in cui gli insegnanti finiscono per essere minacciati e aggrediti dai genitori, in cui persino nella Chiesa vige una sorta di anarchia feudale, uno sconosciuto militare della Capitaneria di Livorno abbia fatto risuonare pubblicamente, a sua insaputa, la voce dell’autorità. Quella voce, dunque, è tutto fuorché “normale”. La ascoltiamo e ci turbiamo: sentiamo, in fondo al cuore, di averne ancora bisogno.
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