di Alessandro Rico
Con questo articolo inizia la sua collaborazione con noi Alessandro Rico, nato a L’Aquila il 6 agosto 1991. Si diploma al liceo classico cittadino nel 2009, l’anno del terremoto che sconvolge il capoluogo abruzzese. Attualmente studia Filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma. Cattolico e liberale old Whig, disprezza la retorica, il buonismo e l’omologazione culturale. Tra i suoi interessi: la filosofia politica, la filosofia della scienza, qualche rudimento di economia; il trash mediatico, la palestra, i cibi che contengono amido. Nel suo futuro una carriera accademica (improbabile) oppure giornalistica (speriamo).
Naturalmente posso sbagliarmi. Non sono un economista e neppure (ancora) un filosofo. Eppure più passa il tempo, più ci addentriamo in questa crisi e più mi persuado che alla sua radice stiano degli errori teorici ancor prima che pratici, dai quali poi i più desumono che il capitalismo sia ormai cotto. Falsi convincimenti che hanno avuto conseguenze disastrose e che, fatto ancora più grave, ci si ostina a propinare come via d’uscita prediletta dalla depressione. La causa del problema scambiata per la sua soluzione, insomma. Questa causa ha un nome: John Maynard Keynes, un uomo sopra le righe che diceva cose sopra le righe, forse sicuro che più una teoria era assurda e più funzionava. Perché la sua è una teoria veramente difficile da digerire per quel mezzo di orientamento cognitivo noto come buon senso: se c’è una crisi, lo Stato non risparmi, ma metta moneta in circolazione per stimolare i consumi, apra cantieri pubblici per assumere lavoratori e consegnar loro denaro sonante per i propri acquisti; il mercato non è in grado di generare autonomamente la migliore allocazione possibile delle risorse, c’è bisogno di una direzione politica dell’economia, da realizzarsi essenzialmente attraverso l’emissione di banconote (quindi un abbassamento dei tassi di interesse, quindi una diminuzione del costo del denaro, quindi l’inflazione). L’accumulazione di ricchezza (fondamento dell’economia capitalistica, come rilevava già Böhm-Bawerk) è una follia; lo scopo dell’economia è il consumo.
La teoria keynesiana, ispiratrice tra l’altro del catastrofico New Deal di Roosevelt, è stata nel mondo occidentale un dogma per una buona parte del Novecento (almeno fino all’era di Reagan e Thatcher). L’adozione di politiche ad essa ispirate ha prodotto risultati apocalittici ed è la vera responsabile delle principali criticità che affrontiamo oggi: innanzitutto, la giustamente vituperata estensione della speculazione finanziaria a danno dell’economia reale (gioco in borsa perché sono coperto dalla banca centrale, che immette sui mercati una enorme quantità di moneta); il crack dei subprime (espansione artificiosa del credito); l’indebitamento pubblico diventato insostenibile per l’Europa, che cresce poco a causa della congiuntura internazionale sfavorevole ed è prigioniera di un sistema in cui vince chi conia valute (cosa che la Bce di principio non può fare per evitare conseguenze inflazionistiche), perché può onorare il proprio debito attraverso denaro comunque privo di ancoraggio a valori reali, circostanza che fa rimpiangere il vecchio gold standard.
Lo dicevano già i Whig della Scuola Austriaca, da Mises a Hayek, l’anti-Keynes per eccellenza, autore di una controversa ma brillante teoria sui cicli economici, intesa a dimostrare gli effetti a lungo termine deleteri della manipolazione delle condizioni del mercato, suggerite dall’economista britannico. Che non a caso riteneva assolutamente superflue analisi di lungo periodo: spendere e spandere, tanto «sul lungo periodo saremo tutti morti». Il lungo periodo è arrivato. Grazie Keynes. E grazie alle piazze finanziarie, che un po’ speculano sulle debolezze strutturali della zona euro e un po’ premono per l’introduzione degli Eurobond e la riforma della Bce sul modello della Federal Reserve americana, che tradotto significa, appunto: Keynes. La Bce stampa denaro senza limiti, garantisce così per il debito degli Stati membri e le borse possono felicemente continuare a gozzovigliare, fino alla prossima recessione. Ecco dove sta il grande fallimento della politica del governo Berlusconi, incapace di riformare il Paese, in modo tale da acquisire un potere contrattuale sufficiente a non doversi aggrappare al mezzuccio del «prestatore di ultima istanza» (una definizione che piace tanto a Ferrara, ormai la ripete ogni giorno sul Foglio). Ma su questo terreno si misurerà pure l’adeguatezza dei leader europei, Merkel compresa. Immagino che la sua reticenza a imboccare la via del debito socializzato non derivi tanto da una consapevolezza delle riserve sulla sua efficacia, quanto dal desiderio tipicamente germanico di tenere sotto scacco il continente e imporre la propria legge; ma temo che governare dei morti di fame, come dimostrano la Rivoluzione francese e l’episodio dei pani e delle brioches della regina Maria Antonietta, a lungo andare non convenga. E allora verrà il momento in cui persino il Quarto Reich cederà agli Eurobond e alla “Federal Bce”?
Ovviamente si tratta di un discorso complicato e la soluzione liberale che io considererei più valida e duratura, richiederebbe una radicale ristrutturazione del sistema viziato dalle follie interventiste, nonché una discussione lunga e presumibilmente noiosa. Per ora basti ciò: la prossima volta che sentirete l’adagio «il capitalismo è fallito», chiedetevi innanzitutto se questo può essere davvero definito capitalismo.
Pubblicato il 23 gennaio 2012
"La teoria keynesiana, ispiratrice tra l’altro del catastrofico New Deal di Roosevelt"
RispondiEliminaCatastrofico? Ma se ha salvato l'America! L'ignoranza della storia genera mostri.