di Francesco Righini
Oggi, in risposta ad un sacerdote che mi rivolgeva tale
domanda, ho scritto una risposta piuttosto articolata, che oso credere
meritevole di lettura e che presento qui arricchita da alcune note.
«Innanzitutto, padre, la ringrazio per la serena curiosità priva
di pregiudizi: ciò le rende veramente onore dal punto di vista e umano e
pastorale.
Per parte mia vorrei fugare l’idea che il rito antico sia un
rifugio dalla cattiva celebrazione del rito nuovo. La scelta dell’antica liturgia avviene per
ragioni che ritengo fondate sull’oggettività del rito, che lo portano quanto a
corrispondere o meno a delle preferenze personali di base che sono innate o
sviluppate lungo la crescita della persona, e lo scelgo a parità di correttezza
e solennità della celebrazione: ad una messa solenne in latino e canto
gregoriano celebrata secondo il messale di Paolo VI dall’abate di Solesmes
preferisco la stessa messa celebrata secondo il messale antico dall’abate del
Barroux o di Norcia, alla messa bassa (recitata) celebrata devotamente in una
intima cappella da un bravo sacerdote preferisco quella tridentina celebrata
allo stesso modo dallo stesso bravo sacerdote.
Rinvengo nel rito antico due ordini di aspetti che lo rendono
migliore: quelli dal punto di vista del contenuto del rito (trovo quindi che il
rito antico – messa, ufficio divino, sacramenti, sacramentali – permetta una
più ricca e completa esposizione dei misteri divini e dei tesori della
spiritualità occidentale: ciò non significa che il rito nuovo ne sia del tutto
privo, ma solo che ne sia meno ricco), e quelli dal punto di vista della sua
adequazione all’intima natura umana. Il rito antico (di nuovo, dalla messa ai
sacramentali) ha una perfetta organicità che, essendosi sviluppata lungo almeno
quindici secoli, è capace di parlare a quegli aspetti costanti e profondi della
natura, che non cambiano lungo il corso della storia (per questo, credo, la
liturgia tradizionale attrae molti giovani che, come me quando lo conobbi la
prima volta, non ne avevano mai sentito parlare prima, e magari non sono
nemmeno cattolici o cristiani tout court).
Un esempio di questi aspetti è il reiterarsi in breve tempo (un
anno in luogo dei tre della liturgia riformata da Paolo VI) di una liturgia
ricca e varia, ma sempre uguale in una danza cosmica attorno al sole che è
Cristo[1]:
tutti gli anni so ormai in anticipo quali testi verranno cantati in chiesa a
Pasqua, a Natale, quella tale domenica della quaresima o dell’avvento, conosco
ormai a memoria – gli anglofoni direbbero, con più suggestiva espressione, a
cuore: by heart – le antifone della
messa, la loro musica gregoriana, ed il loro rapporto con la pericope
scritturale[2],
conosco quali salmi sono cantati o recitati nell’ufficio in quella data ora e
in quel dato giorno della settimana – il salterio essendo ripartito sue sette
invece che su ventuno giorni – quali sono le lezioni dei mattutini ed i loro
responsori. Questo non per dire che conosco a memoria i libri liturgici (non è
vero, anche se molte antifone effettivamente le ricordo), ma che questa
costante ripetizione mi permette di vivere ed essere immerso in una liturgia
che diventa presto parte dello stesso respiro della mia anima, che si fa carne
e sangue, che è veramente parte della mia vita ed una parte famigliare,
riconosciuta, amata: vivo attraverso l’anno liturgico nello stesso modo in cui,
percorrendo una strada che mi sia abituale fin dalla nascita, riconosco ogni
cantone, ogni campanile, ogni albero, stagno o roggia che incontro.
Un altro esempio è quello che nel bel libro del 1990 scritto dal
musicista cattolico americano Thomas Day, Why
Catholics can’t sing[3]
l’autore chiama “l’accadere del rito”[4]:
esso è oggettivo ed impersonale nel suo avere luogo, presente davanti ai miei
occhi nel presbiterio illuminato, non dipende dalla mia volontà, dalle mie
preferenze, dalla mia partecipazione (è ovvio, come ha appena letto, che vi
partecipo eccome, ma esso avverrebbe lo stesso, anche se io non ci fossi, anche
se radicalmente io non fossi: una sensazione simile non mi è mai capitata col
rito nuovo, pur sapendo che anch’esso è liturgia e, metafisicamente, ha gli
stessi caratteri di oggettività di quello antico). In questa liturgia
indipendente e libera dalle nostre umane miserie intuisco la partecipazione
della Chiesa trionfante, degli angeli e dei santi, e la comunione con tutta la
Chiesa militante diffusa nel mondo[5]».
[1] Questo è messo in risalto dall’incentrare
l’intero procedere della liturgia in una rivoluzione della terra attorno
all’astro lucente, in un solo anno solare, invece che in tre, una modifica resa
necessaria dalla pretesa di una maggiore ricchezza scritturale, ma che rende
difficile la ruminatio, per dirla con
gli antichi monaci benedettini, dei testi sacri i quali rischiano di affollarsi
troppo numerosi nella mente del fedele e finanche del chierico, e scardina in
modo arbitrario quel principio simbolico per il quale microcosmo e macrocosmo
si corrispondono riassunti nell’alfa
e omega che è Cristo glorioso: il
corso del cosmo non corrisponde più a quello della celebrazione, il disporsi
dei corpi e delle anime nel rito non trova più la propria rispondenza e risonanza
nel procedere delle stagioni, l’opus Dei-liturgia
viene separato dall’opus Dei-creazione.
Cfr su questi temi le tre Note sopra la liturgia – in particolare
la seconda - di Cristina Campo (edizione recente: Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998,
pp. 129-135), ed il breve ma suggestivo libretto del grande musicologo svizzero
Marius Schneider, Singende Steine
(edizione italiana recente: Marius Schneider, Pietre che cantano, Milano, SE, 2005).
[2] Cfr. Fulvio Rampi, Del canto gregoriano, Dialoghi sul canto proprio della Chiesa, a
cura di Maurizio Cariani e Fabrizio Lonardi, Milano, Rugginenti, 2006, pp.
46-59.
[3] Thomas Day, Why Catholics can’t sing, The Culture of Catholicism and the Triumph of
Bad Taste, New York, Crossroad, 1990.
[4] Mi sia consentita un’ampia
citazione del testo stesso: «Roman Catholicism used to know all about the
idea of letting liturgy be liturgy. (Like the Orthodox, it knew how to make
“the people” feel that they were actors on a cosmic theater set.) But the
church is rapidly moving away from this way of doing things to a system which
tries to appease each constituency and subconstituency within “the people.” In
other words, it is moving away from a ritual which simply takes place (the historic method) to something that is presented
to a constituency. The tehologians may say
otherwise, but members of the laity have the impression that, in the “new”
Mass, the priest, musicians, and assistants seem to be presenting a show at the congregation. Let me give the reader
two “pictures” which clarify this important distinction between the event which
“takes place” and the one which is “presented to” a congregation. In the 1950s
I attended the somber Tenebrae service during Holy Week in Philadelphia0s
Catholic cathedral. A choir of seminarians, seated in the front of the church,
elegantly chanted one Latin psalm after another, without accompaniment. Now and
then, a priest would appear, beautifully chant one of the readings (again, in
Latin), and then disappear into the sacristy. Aside from seminarians, there was
a total of about six members of the laity in the congregation. The time of day
was inconvenient for most people; the cathedral had made almost no effort to
publicize Tenebrae or explain it. But nobody worried about the small “turnout.”
Nobody was embarrassed. Liturgy of all sorts just “was,” whether two people
were there or two hundred. My second picture takes us to a large urban
unviersity. I was strolling past the university’s large chapel and heard some
impressive music coming from it. I decided to follow the sounds to their
origin. There, inside the chapel, I beheld a robed and paid choir of about
twenty, under the direction of the finest organist within a radius of a hundred
miles. As I stood there at the entrance of the edifice, I froze in a mild form
o terror, because the five ro so clergymen who were conducting this
interdenominational service were all intensely staring at me with a mixture of
rage and hope. I was the third member of a congregation of three and my toes
were curling. Tenebrae “took place.” The interdenominational service was
“presented to” a congregation. In the first event, everybody, including the six
laypeople in the cavernous church, was part of an action which moved forward,
in one direction. In the second event, the service moved toward the
congregation, which was not there.» (op.
cit., pp. 80-81).
[5] Non ho
citato il collegamento evidente a tutti – proprio a tutti, persino agli atei,
da quelli che firmarono i famosi appelli di Una
Voce e della Latin Mass Society
negli anni sessanta del secolo scorso al noto autore francese Michel Onfray,
che ha recentemente pubblicato sul Figaro
una apologia del rito tradizionale dal suo punto di vista di non credente – fra
liturgia latina e civilizzazione occidentale: nella musica, nella poesia, nelle
arti figurative. Anch’esso mi collega, seppure in maniera meno mistica, alle
innumerevoli generazioni cristiane che mi hanno preceduto, e più specificamente
al meglio della loro cultura. Saper di avere a disposizione “nei propri
forzieri” i più alti pinnacoli della civiltà occidentale, e tuttavia non
poterli offrire all’altare di Dio: questo sarebbe orribile ma esula
dall’essenza della liturgia in sé e per sé.
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